Anora di Sean Baker: una fiaba moderna sull’illusione del sogno americano


È il 2002 e su MTV viene trasmesso a rotazione il video di All the things she said del duo musicale russo t.A.T.u., dove le due giovani cantanti si scambiano baci appassionati sotto la pioggia in mise da “scolarette sexy”, sulla scia dell’allora regina del pop Britney Spears in Hit me baby one more time. Tu non capisci ancora bene l’inglese, ma non importa: il pezzo ha un ritmo incredibile sin dai primi synth e ti rimane in testa come pochi. Quel ritornello arrabbiato ti sembra un grido di libertà (in un certo senso, lo è, anche se scoprirai anni dopo che si trattava di una mera operazione di marketing) e ti diverti a emularne le parole. Con quello e un paio di altri singoli le t.A.T.u. dominano per anni le classifiche internazionali, per poi pian piano scomparire dalla circolazione come spesso succede con i tormentoni pop. Quasi ti dimentichi di quella canzone, finché, più di venti anni dopo, in un’epoca diversa dove la tv non la guardi nemmeno più, Sean Baker decide di inserire All the things she said nella soundtrack di Anora, film che conquista la Palma d’Oro a Cannes. Da quel momento non fai che pensare ad Anora, alle t.A.T.u, al rumore sordo che fanno i sogni quando si frantumano in mille pezzi e alla bellezza di un certo cinema indipendente che, con lucida delicatezza, ci conduce verso riflessioni stratificate quanto necessarie.
Anora, detta Ani, la magnetica protagonista dell’ultima opera di Baker – interpretata da una Mikey Madison sorprendente – condivide con il duo musicale le radici: viene anche lei dalla Russia ma è, di fatto, americana. Abita a New York, in un piccolo appartamento con la sorella, che ci sembra però un’estranea, e si guadagna da vivere facendo la spogliarellista in uno strip club. Locale dove una sera come tante approda Vanya (Mark Eydelshteyn), russo anche lui, figlio di un ricchissimo oligarca, chiedendo se qualcuna delle ragazze del club parli la sua lingua. I due si piacciono da subito, e Vanya propone presto ad Anora di trascorrere una settimana nella sua enorme villa per del sesso esclusivo, in cambio di diverse migliaia di dollari. Quello che inizialmente sembra alla ragazza solo un ottimo affare si trasformerà presto in un’occasione di riscatto: durante un viaggio a Las Vegas, Vanya le propone di sposarlo – per amore, dice, ma l’idea è quella di ottenere la Green Card e non dover tornare in Russia a lavorare per l’azienda del padre. Anora è scettica, ma allo stesso tempo attratta dalla possibilità di vivere una vita dove tutto sia reso possibile dai soldi (come il sogno di andare a Disney World, che ha sin da piccola) e dove il suo corpo non debba più rappresentare la sua sola fonte di guadagno. Difatti, si licenzia subito dallo strip club e decide di credere in questo amore folle e potenzialmente salvifico. Ma i tempi dei lieto fine alla Pretty Woman sono ormai lontani e sappiamo che Baker è celebre proprio per il sapore dolce amaro con cui riesce a intingere ogni storia che porta sullo schermo. La notizia del matrimonio si diffonde sui social e i genitori del ragazzo, indignati all’idea del loro bel figlioletto sposato con una sex worker, affidano ai loro scagnozzi Toros, Garnick e Igor (degli irresistibili Karren Karagulian, Vache Tovmasyan e Yura Borisov) il compito di costringere i due ad annullare il matrimonio: quella che per Anora pare l’occasione di una vita, per la famiglia di Vanya è solo l’ennesima bravata di un ragazzino annoiato e viziato dai troppi privilegi.
Anora è un film multiforme, liquido, brillante: uno straordinario mélange di generi combinati tra loro con estrema naturalezza, dove i toni della commedia – si ride moltissimo, talvolta fino alle lacrime – sono declinati in tante modalità differenti. C’è la rom comedy ovviamente, e poi il grottesco, passando per soluzioni da slapstick comedy, come quando i tre tirapiedi cercano di immobilizzare un’Anora urlante e scalciante in seguito alla loro irruzione nella mega villa di Vanya, che, invece, vede bene di darsela a gambe. Poi la storia prende una direzione ancora diversa, cambiano gli spazi, e seguiamo i personaggi mentre percorrono le strade cupe e i locali ambigui di una New York notturna e gelida, in un’odissea che ricorda quella affrontata da Paul Hackett nel meraviglioso Fuori Orario di Martin Scorsese. E man mano che si procede verso la fine di quei 139 minuti, che sembrano volar via in un soffio, i toni si incupiscono ancora di più: l’entusiasmo di Anora si affievolisce di pari passo con il calar del sole; non restano che le luci bieche e soffuse dei dance club newyorkesi, che però sembrano aver perso la vivacità che emanavano nella prima parte del film, proprio come la protagonista.
Sean Baker è abilissimo anche nel servirsi di alcuni strumenti narrativi del cinema classico (si pensi alla divisione in atti) per restituirci però qualcosa di totalmente nuovo e diverso dalla maggior parte di quanto visto prima, grazie alla spontaneità della sua scrittura e alla sua sensibilità non comune. Forse è proprio qui che risiede la forza del regista statunitense: il modo in cui posa lo sguardo sui suoi personaggi. Il risultato è una rappresentazione autentica, ma mai giudicante; intima, ma mai invadente; Anora, in particolare, la percepiamo sempre al centro di tutto, eppure fuori posto; sensuale e bellissima, eppure, in qualche modo, rotta. Nell’operato di Baker c’è un equilibrio complesso, tangibile, e che prende forma su più livelli: sta anche a noi decidere dove soffermarsi, dove posare il nostro, di sguardo.
Ci si diverte molto, infatti, ma lo si fa assistendo a uno scenario che, appena sotto la superficie – quella dei jet privati, dello champagne in limousine e delle luci al neon – è struggente: Anora è prima oggetto del desiderio, poi fidanzata devota e poi umiliata dalla famiglia di un ragazzino viziato che aveva bisogno di un’ennesima via d’uscita dalla sua gabbia dorata. E in una delle scene più dolorose del film sarà Vanya stesso, solo qualche ora dopo le sue promesse di vero amore, a darle della stupida: come poteva pensare che quel loro matrimonio improvvisato avrebbe potuto avere un seguito? Non c’è salvezza nel film di Sean Baker, e del mito dell’american dream non resta che una vacua illusione, una folle chimera. D’altronde è una scelta ricorrente del regista quella di raccontarci storie su chi, della società americana, occupa solamente i margini, quelli lontani, da cui si fa fatica ad emergere. Non è tutto oro quello che luccica, e l’altra faccia di una delle più grandi potenze economiche al mondo è una classe sociale dimenticata, stanca, disillusa.
Non c’è salvezza, dunque, ma c’è un pizzico di speranza in Anora, e c’è la tenerezza dell’incontro di due solitudini in un mondo in cui colmare i propri vuoti è ormai sempre più difficile. Tutto questo passa attraverso un personaggio chiave, Igor, uno dei tre omaccioni assoldati dal padre di Vanya per la missione anti-matrimonio. Igor si rivela a poco a poco un ragazzone con un cuore di panna, l’unico che forse riesce a vedere, davvero, chi è Anora: una ragazza con dei sogni, che forse è dovuta crescere troppo in fretta (sul suo passato sappiamo poco, ma possiamo immaginare molto, basti pensare alla protagonista bambina del precedente e bellissimo The Florida Project: anche lei sognava Disney World). Igor non brandisce una calibro 45, ma piuttosto una gentilezza disarmante e silenziosa, fatta di gesti piccoli, eppure essenziali. Nello sguardo buono di Igor Anora avrà la possibilità di riconoscere, dopo una iniziale e comprensibile resistenza – durante il loro primo esilarante incontro, lui doveva immobilizzarla – qualcosa che, forse, non aveva mai conosciuto prima: un legame sincero e disinteressato, dove il sesso a pagamento e le pile di contanti non c’entrano niente.
Il finale, che non vi riveliamo, è perfetto: si ha la sensazione che ogni minuto delle due ore precedenti ci abbia voluto condurre a quel preciso istante. Tutto quel movimento, le feste, l’irrequietezza, le urla, sembrano già un ricordo lontano. E i due maggiori simboli di potere che trainano tutta la storia, il sesso e i soldi, non servono più a nulla. Vediamo spesso Anora togliersi i vestiti durante il corso del film, ma mai prima era stata così esposta e vulnerabile. In questa ultima scena c’è tutta la complessità del sentire umano, cristallizzata in qualche memorabile e straordinario minuto, appena prima che il suono metallico di un tergicristalli accompagni il buio dei titoli di coda. Forse dovremmo immaginarcelo così, il rumore che fa un sogno quando si spezza: metallico, ruvido, malinconico.