Chi educa, soffre: una lettura di "Steve"

Isabel Musoni

11/29/20253 min read

Quando parliamo di “mentore”, rischiamo sempre di richiamare un immaginario un po ' polveroso: la guida saggia, la voce autorevole, colui che sa cosa dire al momento giusto per indicare la strada migliore. Eppure, il cinema contemporaneo sembra aver completamente scardinato questa mitologia, portando il mentore in un terreno molto più complesso dove la fragilità è l’elemento fondamentale della sua funzione educativa.

Steve, il nuovo film di Tim Milants tratto dal romanzo Shy di Max Porter e arrivato da poco su Netflix, incarna perfettamente questa trasformazione. Non ci porta un mentore eroico, né un salvatore altruista, ma ci mette davanti un uomo esausto, pieno di crepe, che tenta comunque di essere un punto di riferimento in un mondo che si sta sgretolando.

Il film diventa un’occasione preziosa per riflettere su un’intera idea di cura e di responsabilità che va al di là della relazione tra educatore e allievo.

La narrazione si svolge in un’unica giornata, una scelta semplice che permette al film di diventare una lente d’ingrandimento nella quotidianità dei protagonisti. L’istituto per ragazzi “problematici” che Steve (Cillian Murphy) dirige è vicino alla chiusura, e questa minaccia aleggia su ogni scena come una silenziosa tempesta.

Gli studenti vagano per i corridoi e cortili con l’energia frenetica di chi non sa dove incasellare il proprio dolore, e tra di loro si distingue Shy (Jay Lycurgo), impulsivo, poetico senza accorgersene, ed altalenante nei suoi estremi crolli emotivi.

Steve cerca di capire come raggiungerlo, con piccoli gesti di presenza che si distanziano da sermoni o trucchi educativi: uno sguardo, una mano tesa, una presenza, che gli permettono di instaurare con Shy un rapporto alla pari.

La vera guida, a volte, nasce in quel terreno un pò friabile dove camminiamo con gambe tremanti, senza sapere se il suolo reggerà il peso del passo successivo. L’unica certezza nell’indecisione sta nella mano tesa, che afferriamo per provare a non perderci, e Steve cerca di essere per Shy una presenza che non illumina la via, ma lo accompagna nel buio.

Dal punto di vista stilistico, Steve gioca sulla prossimità, con una macchina da presa che respira sui personaggi, seguendo i loro movimenti nervosi, riempiendo i silenzi improvvisi e accompagnando ogni confessione. Non c'è alcuna distanza di sicurezza, e questa scelta rende il film corporeo e palpabile. Lo spettatore è una mosca sul muro che osserva senza fiatare, trattenendo il respiro per paura di disturbare il flusso naturale della giornata che i ragazzi stanno vivendo.

La cosa interessante è che il film non cerca in alcun modo la redenzione, distanziandosi dal cinema scolastico che vede nel mentore quella figura salvifica che riporta il ragazzo problematico sulla retta via a colpi di dedizione e carisma (vedi per esempio Il Genio Ribelle). Al contrario, Steve rifiuta la logica del salvatore, e mostra quanto sia rischioso, emotivamente drenante e complesso prendersi cura di qualcuno quando si è, a propria volta, in grande difficoltà.

Murphy costruisce un personaggio che non insegna nulla in modo esplicito, ed è proprio per questo che diventa credibile come figura educativa; un mentore che non ha la bacchetta magica e le soluzioni nascoste dentro le maniche, ma è una presenza e questo, nel film, vale più di qualsiasi metodo pedagogico.

A livello tematico, Steve si muove in un territorio politico. Il suo sguardo si rivolge a una realtà educativa che sopravvive su fondamenta fragilissime: istituti marginali, centri di recupero, scuole speciali che sopravvivono con scarse risorse e lasciate ai margini delle priorità pubbliche. Qui emerge la mancanza di un sostegno istituzionale, che non protegge, non accompagna, e soprattutto non garantisce continuità.

In questo panorama, chi lavora nell’educazione appare come una figura di resistenza silenziosa, persone che non agiscono da eroi, ma cercano di sopravvivere.

Sono figure sottopagate, sottovalutate, invisibili all’occhio pubblico, ed il film ha il merito di restituire senza retorica la durezza di questa condizione.

Steve è chiamato a risolvere problemi immensi senza alcuno strumento, e la fragilità del mentore in questo contesto è un sintomo collettivo; la prova vivente di un sistema che non funziona e che priva chi dovrebbe fare da guida della propria stabilità emotiva e professionale.

La difficoltà di Steve non è quindi il problema, ma la diagnosi. È lo specchio di un sistema educativo che ha perso la sua capacità di proteggere e salvaguardare, ed è proprio questa consapevolezza, tanto dolorosa quanto necessaria, che rende Steve un film non solo emotivo, ma anche profondamente sociale.

Isabel Musoni