Diciannove – i suoi, ma anche i miei e i tuoi

Diletta Coluccia

9/27/20243 min read

Diciannove è un racconto dissacrante, per lo stile utilizzato dal regista, che affronta un provincialismo universale, poiché alla fine “viviamo tutti la stessa vita”

Ma dal momento in cui è suonato il falso allarme in sala fino al mio viaggio di ritorno a casa, mi sono chiesta cosa potesse renderlo così immediato rispetto ad altri, genuino, da guance rosse, sorriso sorpreso e spontaneo. Per me il discrimine non può che essere il linguaggio evocativo che abita questo coming-of-age e che riporta sullo schermo un legame senza tempo, quello tra umorismo e melanconia.

Nell’opera prima di Giovanni Tortorici l’uomo è la misura di tutte le cose, il contrasto fra bellezze e squallori del contemporaneo racconta tutto (ma proprio tutto eh) ciò che c’è di reale nei 19 anni del protagonista: le responsabilità di una vita lontano dalla sicurezza della propria casa, l’ingenuità con cui si può sbagliare, le contraddizioni di un ragazzo attratto dall’antico, le pulsioni violente e la sua capacità di reprimerle, gli effetti dell’isolazione, il cinismo e la saccenza che lo consolano nella ricerca di se stesso. Il continuo ruminare getta Leonardo in una tristezza capricciosa, in un cupo e goffo malcontento. Per noi, Tortorici ne raccoglie con fare disimpegnato solo degli sprazzi, in cui il montaggio di Marco Costa, che scompone le riprese con rallenty, fermi immagine, zoomate, ne aumenta l’effetto umoristico.

Qui una narrazione didascalica non può funzionare; il regista vuole restituire i (suoi) diciannove anni: rumorosi aggressivi, scalpitanti, d’altronde si raccontano da soli. La scelta di una prospettiva anarchica, che già negli anni ‘50-’60 raccontava lo Splendore del Vero, rivela il suo acume. L’ atmosfera della Nouvelle Vague, che ben si addice alla categoria Orizzonti e sembra surreale quanto entusiasmante poterla attribuire a uno Zers, si respira ampiamente nella scelta della scenografia (gli stessi luoghi di Siena frequentati dal regista), nella scelta del cast: Leonardo, che ‘fait les quatre cents coups’ (ne combina di tutti i colori), è interpretato da Manfredi Marini realmente diciannovenne. Anche le scelte registiche sembrano essere sui generis: il modo ironico di esprimere in modo canzonatorio un desiderio di morte, la ripresa di un’intensa speculazione scaturita dalla sola puzza del fornelletto elettrico, le bugie alla mamma, le buste della spesa che si rompono.

Leonardo lascia Palermo per andare a Londra a studiare economia, ma fin da subito, in totale autonomia, accusa l’insorgenza di minacce che continuamente stravolgono il suo equilibrio. Si stupisce quando si accorge che non può fare a meno di alcuni degli elementi in perfetta orbita, intrinseci nel suo vivere e richiedono un dispendio enorme di energie e scelte drastiche, senza mezzi termini. Leonardo decide quindi di trasferirsi a Siena per studiare letteratura e trascorre le sue giornate da fuori sede per lo più a rimuginare, da solo nella sua stanza o per il centro storico. é solo anche con gli altri. In questi momenti il protagonista studia se stesso il suo rapporto con il mondo ed è bellissimo poterlo vedere in balia dei suoi sentimenti irrisolti che si manifestano in modo caotico, contribuendo a creare tempi comici straordinari: in sala i tempi sfalsati in cui si rideva erano il metro dell’età degli spettatori, il tempo necessario a ricordarsi i propri 19 anni.

In ogni scena – sempre diversa dalla precedente – i toni, i formati e i linguaggi si scambiano e si sovrappongono: siamo di fronte a una rievocazione episodica umana apparentemente senza soluzione di continuità (vi è una casualità ma in fin dei conti la sa solo il regista) e ci va bene così. Esplorando ogni singolo evento in Diciannove si perderebbe infatti la potenza evocativa delle immagini e dei suoni che ci rendono partecipi di uno stato emotivo violento e tormentato, su richiesta di chi l’ha vissuto. Per i più scettici, un punto d’arrivo c’è: lo scontro tra Leonardo e un amico di famiglia più anziano, forse anche più saggio. Segue la punch line finale del film: “una lezione di vita la si impara prima o poi”, lasciandoci con la consapevolezza che una trasposizione cinematografica di uno spaccato personale è possibile solo grazie al tempo, che traccia la distanza necessaria per una gravità senza peso come lo humor melancolico, come i nostri 19 anni.