Duse: Teatro o Morte!

Francesca Pascale

9/9/20253 min read

La figura di Eleonora Duse - interpretata da Valeria Bruni Tedeschi al massimo delle sue capacità attoriali -, si muove nello spazio filmico di Pietro Marcello come un’eco lontana, mai ingabbiata nella convenzione rassicurante del biopic. Duse non ricostruisce, non elenca, non ordina cronologicamente. L’opera preferisce frantumare e riorganizzare frammenti, lasciare che la voce del teatro attraversi le immagini come un vento costante, capace di scardinare ogni tentativo di fissare una verità definitiva. In questo senso, Pietro Marcello prosegue un percorso autoriale che da sempre privilegia la materia viva delle immagini d’archivio, la contaminazione di linguaggi e la ricerca di una dimensione poetica oltre la biografia. La macchina da presa non si impone sulla Divina e sul mondo che la circonda, ma osserva, sfuma, avvicina, lasciando che i volti e i corpi parlino con la stessa intensità delle parole.

Il ritmo irregolare, sospeso, trasforma la biografia in un territorio poroso, dove la realtà e la sua evocazione teatrale si intrecciano. Il film si inscrive perfettamente nella traiettoria di Pietro Marcello,che, come in Martin Eden, crea un intreccio narrativo fra la donna Eleonora Duse e la sua storia: fondendo privato e pubblico, attraverso una tensione costante verso il mito della Divina. La fotografia, di una bellezza austera, lavora con le ombre e con la luce come se fossero elementi drammaturgici. Il colore, spesso smorzato, sembra riportare costantemente lo spettatore a una soglia interiore, quasi a suggerire che la vera scena si consumi nella profondità dello sguardo, non nella superficie.

Le inquadrature insistono sul dettaglio, sui volti scavati, sui gesti sospesi, creando una tensione visiva che restituisce la fragilità e la grandezza della Duse non come icona, ma come presenza vulnerabile. In questo senso, la fotografia è manifesto del cinema di Pietro Marcello, che non teme la materialità delle immagini, la loro grana imperfetta, anzi le utilizza per rivelare ciò che sfugge all’omogeneità patinata del biopic tradizionale. Poco c’è da dire sull’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi, se non che sia straordinaria. L’attrice Italo-francese offre un’interpretazione che rifugge il manierismo biografico. Non imita, non riproduce, non cerca la maschera. Piuttosto lascia emergere, attraverso una recitazione scabra e a tratti esitante, la possibilità che Eleonora Duse sia soprattutto una tensione, una condizione dell’anima. Valeria Bruni Tedeschi restituisce l’idea di una donna che non coincide mai del tutto con la sua immagine pubblica, rimanendo in bilico tra il palcoscenico e la vita, tra la voce che si dona agli altri e il silenzio che custodisce se stessa. È un’interpretazione che trova risonanza con altre figure femminili raccontate dal cinema di Pietro Marcello, donne sospese tra erosione storica e resistenza intima, tra un destino imposto e una ricerca di libertà. Ed è proprio il Teatro che gioca il ruolo di vera metafora del film: esso non è un semplice luogo fisico, ma figura esistenziale.

Per Eleonora Duse il palcoscenico non è separazione, bensì continuità con la vita. Recitare significa vivere più intensamente, consumarsi nell’atto stesso della rappresentazione. Pietro Marcello intercetta questa concezione e la espande, trasformando il film in un dispositivo metateatrale in cui ogni immagine sembra al contempo testimonianza e finzione, verità e messa in scena. Il palcoscenico diventa specchio dell’esistenza, e il confine tra l’attrice e la donna, tra la scena e il reale, si dissolve. Duse è, in definitiva, un’opera che rifiuta i confini del biopic per diventare riflessione sul potere delle immagini e della memoria. Attraverso la stratificazione dei linguaggi – cinema, teatro, documento – Pietro Marcello costruisce un ritratto che non pretende di possedere la Duse, ma di evocarla come presenza assente, come mito che continua a interrogare lo spettatore contemporaneo. In questo spazio sospeso, Eleonora Duse non è soltanto una figura storica, ma la rappresentazione stessa dell’arte come vita e della vita come scena. Ed è in questa sospensione che il film trova la sua forza più autentica: nel rendere visibile l’invisibile, nel dare voce a ciò che sopravvive oltre la storia, oltre l’immagine, oltre lo stesso cinema.

“L’unico modo che ho di rispondere alla guerra, è il Teatro”

Duse di Pietro Marcello