Enter the Void o LA PAURA DEL VUOTO


Si cerca sempre di sfuggire ai dolori del passato; ci si nasconde da essi come dai fa con i fantasmi che vivono in soffitta o come quando si ha paura di dormire temendo un incubo ricorrente.
Ognuno ha la sua strada per sfuggirci.
Oscar e Linda trovano rifugio nel “vuoto”.
Enter the Void, ormai considerato un classico dagli amanti del regista Gaspar Noè, narra della ricerca di questo vuoto che sembrerebbe essere capace di colmare tutto il dolore patito. In una Tokyo luminosissima, dove la luce del sole è come oscurata dai palazzi luminosi. Oscar, giovane spacciatore, vive in un piccolo appartamento in attesa che la sorella Linda lo possa raggiungere. Il loro rapporto strettissimo nasce dal trauma subito dalla morte dei genitori quando loro erano ancora molto piccoli. Giuratasi fedeltà eterna, Linda arriva finalmente a Tokyo.Nonostante la gioia iniziale, la loro tanto bramata unione verrà spezzata dalla morte del protagonista, avvenuta in un locale chiamato “the Void” mentre, nascosto in bagno per sfuggire alla polizia, Oscar verrà ucciso. È a questo punto che Oscar la sua esperienza extra-corporea e noi spettatori con lui.


Il film, infatti, non è costruito linearmente ma con flashback e flash forwards viviamo in ordine sparso la vita di Oscar, dai primi momenti dell’infanzia alla sua morte e forse una potenza di rinascita. Tutto il film è infatti accordato sulle nozioni di Nirvana e reincarnazione rubate alla filosofia buddista che, come briciole di pane, ci suggeriscono una visione trascendentale. La città è essa stessa una droga, con le sue luci manipola la visione che Oscar e Linda hanno sulla realtà.
Tutto nel film è disturbante: dialoghi, immagini, movimenti di camera; anche lo spettatore è immerso nella dimensione psichedelica che Linda e Oscar vivono. Le sostanze psichedeliche e le droghe, che tutti i personaggi assumono normalmente, portano come a delle visioni dis-umane, ad uno staccamento dal corpo fisico per cerca un altro mondo in cui esistere senza la sofferenza a cui gli uomini sono destinati.
Questi corpi sono in contrasto con gli schermi luminosi, come a ricordare allo spettatore la differenza costante tra umanità, destinata ad invecchiare e lacerarsi, con la virtualità, la quale non si consuma.


La questione veramente interessante di tutto il film è l’utilizzo della soggettiva. Da quando Oscar inizia il suo “viaggio nel vuoto” lo spettatore lo segue, diventando i suoi occhi. La macchina da presa rende possibile una identificazione totale con il protagonista che non solo rivive la sua vita precedente ma osserva il futuro a cui non può più aspirare. Il rapporto uomo – macchina non è più solo un dialogo tra le due parti ma qui l’uno si fa corpo dell’altro.
Oscar non è mai visto dal pubblico in faccia, se non al momento della sua morte, o passaggio verso una nuova forma, e da bambino; come se fosse una estensione stessa della macchina da presa. Queste scelte registiche rendono lo spettatore ancor più immerso nella ricerca, quasi ossessiva, di un po’ di pace.
Il vuoto rappresenta un bilico, la tentazione di saltare è frenata dalla paura ma allo stesso tempo resa adrenalinica da essa. Oscar e Linda sembrano costantemente alla ricerca di un luogo nuovo, di qualcosa che possa colmare una mancanza. Però scappano, si nascondono, rigettano tutto ciò che trovano, che Tokyo sembra offrirgli.
Era quindi un desiderio o una fuga?