“Everyone wants to be found”: trovare chi ci trova.


Nel 2003 all’uscita nelle sale di Lost in translation, opera seconda di Sofia Coppola, la locandina del film, raffigurante Bill Murray in vestaglia e ciabatte a fissare con sguardo ironico la telecamera, recava la dicitura “Everyone wants to be found” (Tutti vogliono essere trovati).
La necessità di un rassicurante punto di riferimento, di un mentore che veda e comprenda, capace di fungere da guida o, meglio, di aiutare a dare un significato al mondo abitato, è profondamente radicata nell’essere umano. In questo bisogno sussiste una certa contraddizione, poiché a convivere con il desiderio di ricevere orientamento e sostegno, è la volontà di preservare gelosamente la propria autonomia e libertà.
Probabilmente, la soluzione risiede nella misura, nell’equilibrio tra queste due opposte tensioni. Forse, non si tratta tanto di trovare un punto di riferimento che indichi la direzione, quanto piuttosto una presenza capace di riconoscere l’individuo nel disordine e di affiancarlo, per quanto invischiati in un caotico mondo.
Nella pellicola di Sofia Coppola, a rappresentare questa magmatica realtà in rapido fluire è una Tokyo euforica. Nei suoi meandri è facile disorientarsi e lasciarsi fagocitare dalla frenesia di un mondo dai colori sgargianti e di una cultura incomprensibile nella sua esplosione.
Tuttavia, Charlotte, ventenne neolaureata in filosofia all’Università di Yale - interpretata da una giovanissima Scarlett Johansson, e Bob, a cui presta volto Bill Murray, attore americano di mezza età con un matrimonio in statico declino, si trovano.
Si tratta di un fortuito incrocio di vite divergenti, ma inevitabilmente attratte l’una all’altra. Le accomuna il tentativo di abitare, anche se per breve tempo, uno spazio “altro”, dissonante e con cui pare impossibile comunicare.
I due si trovano in Giappone per motivazioni differenti: Charlotte, da poco intrappolata in un matrimonio che fin dagli albori sembra in dissoluzione, segue il marito fotografo, non curandosi degli altri impegni della propria vita ordinaria, tra cui la ricerca di una direzione personale.
Bob, conosciuto ormai il successo, la famiglia e la stabilità coniugale, atterra a Tokyo per girare uno spot pubblicitario di un noto whisky.
Sulla base della comune postura interrogativa e incerta nei confronti del contesto che lo circonda, Sofia Coppola costruisce abilmente il singolare rapporto tra i due personaggi.
Il film, minimalista nello sviluppo narrativo, segue l’abbozzarsi dei protagonisti, che gradualmente si fanno conoscere dallo spettatore e delineano il proprio legame.
Una lettura superficiale vedrebbe la tipizzata e romanticizzata storia fra giovane donna e uomo più grande, andando così a distruggere la delicata operazione della regista che con Lost in translation strizza l’occhio a questo stereotipo per smantellarlo.
Tra Bob e Charlotte, due identità fragili e molto distanti, che casualmente incrociano lo sguardo in ascensore, e che una notte per un condiviso stato di insonnia si incontrano nel bar dell’albergo, nasce una forte complicità.
I loro mondi complementari, per quanto apparentemente diversi, collimano e si comprendono reciprocamente: Charlotte coglie la sottile ironia di Bob, Bob è piacevolmente trascinato dall’entusiasta curiosità di Charlotte.
Si accende una viva sintonia che non muta in passione, poiché tra i due personaggi non nasce una relazione fisica.
In una scena significativa conversano distesi a letto, senza sfiorarsi, unica eccezione è il tenero gesto di Bob di afferrare la punta del piede di Charlotte, dove per altro si era ferita, mentre giace in posizione fetale affianco a lui.


Pertanto, nasce un rapporto non traducibile in concrete e tradizionali dinamiche amorose, in quanto si alimenta di ciò che i due non si dicono: degli sguardi scambiati in totale connessione, della reciproca cura che i loro gesti manifestano.
L’importante differenza anagrafica e in particolare l’età matura di Bob inducono lo spettatore a identificare quest’ultimo con la figura del mentore a cui la giovane Charlotte guarda e si aggrappa.
Nel film si coglie tale dinamica, ma essa non si sviluppa in modo convenzionale.
In primo luogo, perché il personaggio “guida”, del tutto privo di eroismo, sembra quasi parodiare qualsiasi forma di idealizzazione. Bob non è un uomo risolto, un punto di riferimento che impartisce lezioni di vita, né tanto meno che offre un esemplare modello di comportamento, ma un individuo che appare nella sua fragilità e nel suo disorientamento.
L’efficacia del personaggio-guida non risiede nel dirigere la giovane protagonista o nel dispensare insegnamenti precisi, ma piuttosto nel condividere con lei una medesima postura interrogativa e disorientata di fronte alla realtà. Entrambi faticano a dare un senso al mondo abitato, ma mentre lei è ancora alle prese con la confusione tipica della sua età, lui, forte di una maggiore esperienza, ha maturato la capacità di convivere con quell’incertezza senza necessariamente superarla.
Bob ha smesso di lasciarsi travolgere dagli eventi, dalle infinite domande su un'esistenza senza senso, dallo smarrimento perenne, perché ha iniziato a comprendere come poter convivere con esso.
In questo modo Charlotte, che attraversa una fase della propria vita dove tutte le porte sono potenzialmente aperte e qualsiasi via risulta percorribile, trova nella rassicurante presenza di Bob comprensione e risonanza ai propri dubbi. Non solo: apprende anche che, sebbene la sensazione di smarrimento non scomparirà mai del tutto, dopo averla riconosciuta, è possibile contenerla e dominarla.
A tal proposito, esemplificativo è uno degli scambi di battute più efficaci del film:
Charlotte: “Sono confusa, diventa più facile poi?”
[…]
Bob: “Si, diventa più facile. Più conosci te stesso e sai ciò che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi”.
Charlotte: “Già, è solo che io non so cosa voglio diventare, capisci? Ho cercato di fare la scrittrice, ma detesto quello che scrivo. Mi sono messa a fare fotografie, ma sono mediocri. Sai, ogni ragazza attraversa la fase – la fotografia – la fissa dei cavalli… O fa stupide foto dei piedi”.
Bob: “Ce la farai di sicuro, non sono preoccupato per te. Continua a scrivere”.
Charlotte: “Ma ho dei limiti”.
Bob: “Non è un male!”.
I due si incontrano casualmente in un albergo e, per una settimana, condividono l’insonnia tra bar, karaoke, conversazioni e film. Con la stessa semplicità con cui si erano avvicinati, il giorno della partenza di Bob si salutano, pronti a tornare alle rispettive vite.
Senza convenevoli si chiude così una piccola parabola, all’interno della quale, tuttavia, si è dischiuso un intero universo emotivo, la cui intensità emerge nel saluto finale.
Nel taxi diretto all’aeroporto, l’uomo intravede la giovane camminare lungo la strada. Ferma il mezzo, le si avvicina, la osserva per qualche istante e poi la abbraccia.
I due si baciano, ma subito dopo lui la bacia tra la guancia e la fronte, dicendole qualcosa all’orecchio che allo spettatore non è dato conoscere. Bob si allontana da Charlotte, retrocede guardandola e sorridendo.
Quest’ultima sintesi di gesti rivela compiutamente la natura del legame tra i protagonisti: un fortuito incontro tra due identità, scomposte rispetto al mondo, che scoprono di avanzare secondo un ritmo comune fatto di vicendevole sostegno.
In questa dinamica si coglie quanto significativa sia la fortuna, in mezzo al disordine, di trovare ed essere trovati da qualcuno che ci dia qualche dritta per abitarlo al meglio.
Lara Volpato
