GHOST ELEPHANTS: SONO MEGLIO LE AMBIZIONI O I TRAGUARDI?

Ludovico Persic

9/9/20253 min read

Ghost Elephants non racconta di spiriti o presenze ultraterrene, ma di animali la cui esistenza è rimasta per decenni sospesa tra mito e realtà. Per il protagonista della vicenda, lo zoologo ed esploratore sudafricano Steve Boyes, questi elefanti sono diventati un’ossessione e l’unica grande ambizione della sua vita. Si tratterebbe dei discendenti diretti del leggendario elefante Henry, il più grande mammifero terrestre mai documentato, abbattuto nel 1959 dal cacciatore ungherese Josef J. Fénykövi. Il suo enorme scheletro imbalsamato troneggia ancora oggi al centro dell’atrio dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington, e funge da punto di partenza ideale per il film.

Questi elefanti vengono chiamati “fantasma” perché appaiono con tale rarità da sembrare quasi irreali. Molti abitanti locali si domandano da anni se esistano ancora, e il loro drammatico declino demografico alimenta questo dubbio. Basti pensare a un dato riportato dalla ricercatrice Sarah Hoek: durante il periodo della Spartizione dell’Africa si stimava una popolazione di circa 26 milioni di elefanti; nel 1970 ne rimanevano 1,3 milioni, e oggi appena 400.000. La perdita è stata causata soprattutto dal bracconaggio per l’avorio, dalla distruzione dell’habitat naturale trasformato in campi coltivati o villaggi, e – in Angola – dagli effetti devastanti di una guerra durata quarant’anni. In questo conflitto gli elefanti non furono soltanto prede privilegiate dei soldati, ma restano tuttora vittime delle innumerevoli mine antiuomo sepolte nel territorio. Da anni Boyes si dedica a rintracciare queste creature rare e sfuggenti negli altipiani dell’Angola, una regione remota e quasi disabitata, grande quanto l’Inghilterra. Qui conduce le sue spedizioni insieme al National Geographic Okavango Wilderness Project, accompagnato da altri studiosi e da esperti cacciatori-tracciatori locali. Il film segue le loro fatiche a partire dal confine con la Namibia, documentando paesaggi vastissimi, tradizioni, animali e segni misteriosi che potrebbero condurre alla prova dell’esistenza dei “ghost elephants”. Eppure, il punto più affascinante del film non sta nella semplice documentazione naturalistica. Herzog, come spesso accade nei suoi lavori, trasforma la ricerca in una riflessione sul senso dell’ambizione e del desiderio umano. È più importante raggiungere la meta o percorrere il cammino che ci porta ad essa? Vale di più arricchirsi spiritualmente inseguendo un sogno, o materialmente nel momento in cui lo si realizza? Boyes stesso confessa il timore che forse la forza vitale della sua ricerca stia nel desiderio, e che trovarli davvero significherebbe in qualche modo spegnere il sogno.

Qui entra in gioco la poetica di Herzog: con la sua voce inconfondibile fuoricampo, con le sue domande a tratti esistenziali e a tratti ironiche, con le imponenti inquadrature dei paesaggi angolani, riesce a dare un respiro più ampio a quella che potrebbe sembrare “solo” un’avventura zoologica. Ci invita a riflettere non soltanto sul destino degli elefanti, ma anche sulla finitudine dell’uomo, sulla nobiltà delle ambizioni personali e sull’importanza della collaborazione tra individui. Unico appunto critico: rispetto ad altri documentari di Herzog – come Cave of Forgotten Dreams, girato nelle grotte di Chauvet, Apocalisse nel Deserto, con le visioni delle distese di petrolio in fiamme in Kuwait, o Encounters at the End of the World, dedicato alla vita degli scienziati in Antartide – qui il regista appare meno presente fisicamente. Non si mostra in prima persona, come era solito fare, ma resta dietro la cinepresa, limitandosi a un commentario sobrio e a volte ironico. Questo lo rende meno “protagonista” del film, anche se la sua impronta resta comunque fortissima. Se non avete ancora esplorato l’universo dei suoi documentari, vi consiglio di farlo partendo dall’inizio e seguendone l’ordine cronologico: solo così si può cogliere la portata delle sue imprese artistiche e della sua visione unica. Non a caso Herzog ha ricevuto il Leone d’Oro alla Carriera all’82ª Biennale del Cinema di Venezia. Io ero lì, presente, a testimoniare l’omaggio a un uomo che ha trasformato il documentario in un’arte capace di toccare le corde più profonde dell’animo umano.