How to Have Sex: come (non) fare sesso


Disclaimer: ceci n’est past una recensione, parafrasando Magritte. O meglio, non si tratterà di una recensione in senso stretto, ma di uno spunto di riflessione estremamente personale, dal momento che How To Have Sex (2023), esordio alla regia di Molly Manning Waker disponibile su Mubi e vincitore nella sezione Un Certain Regard allo scorso festival di Cannes, è un film in grado di evocare sensazioni talmente familiari da rendere difficile il mantenimento di un certo distacco emotivo. Di questo film, quindi, parlerò di pancia e probabilmente non eviterò alcuni spoiler. Ma procediamo con ordine.
Tre amiche adolescenti, Tara (la magnetica Mia McKenna-Bruce), Em (Enva Lewis) e Skye (Lara Peake), finito l’anno scolastico decidono di trascorrere alcuni giorni all’insegna del divertimento a Malia, sull’isola di Creta. Alcol, feste in locali notturni e sesso occasionale sembrano essere il fil rouge della vacanza, che preannunciano come la migliore della loro vita. Se Em e Skye, tuttavia, appaiono più sicure di sé poiché hanno già fatto le prime esperienze, Tara è ancora vergine e percepisce molta pressione al riguardo. Si sente spesso fuori posto, inadeguata, e pare che perdere la verginità entro la fine della vacanza sia un obiettivo di vitale importanza. Le tre ragazze conoscono da subito un altro gruppo di giovani e arriverà presto l’occasione tanto agognata da Tara, che però si ritroverà a vivere un’esperienza tutt’altro che positiva poiché forzata dalle circostanze.
How to Have Sex è uno di quei fortunati titoli che negli ultimi anni ci hanno ricordato due cose: la prima è che gli esordi possono rivelarsi sorprese bellissime (penso ad Aftersun di Charlotte Wells o a Past Lives di Celine Song) e la seconda è che la sensibilità dello sguardo femminile rispetto a certe tematiche è tanto preziosa quanto insostituibile, mentre per troppi anni la storia del cinema è stata costellata da storie su donne raccontate da uomini – che non significa che i risultati siano stati disastrosi, ma che il punto di vista cui il cinema ci ha abituato è stato per molto tempo fuorviante.
Il lungometraggio di Manning Walker è un delizioso coming-of-age che, nonostante la patina luminosa da storia teen disseminata da giocosità e leggerezza, affronta il tema dell’approccio alla sessualità con un’attenzione e un accuratezza non comuni. Certo, non mancano scene di balli in discoteca dove shot di super alcolici vengono trangugiati di tutta fretta, o di feste a bordo piscina dove si intonano le hit estive del momento: fotografia e colonna sonora ricreano perfettamente quelle atmosfere tipiche delle vacanze estive adolescenziali dove tutti si sentono “young, wild and free”.
In questo contesto, tuttavia, si inseriscono le angosce di Tara, che dietro a fragorose risate di circostanza nasconde una sensazione di inadeguatezza in grado di trafiggere lo schermo e arrivare come una lama sul fianco, ricordandoci quante volte anche noi ci siamo sentite così inadatte, fuori posto e confuse in situazioni simili (declinazione al femminile non casuale). Non aver mai fatto sesso è per Tara motivo di imbarazzo e sente che durante la vacanza dovrebbe riuscirci in tutti i modi, nonostante si percepisca bene che sulla propria sessualità e sul proprio corpo abbia ancora le idee confuse, con l’unica certezza che si debba rendere carina e “sexy” agli occhi degli altri ragazzi – d’altronde chi è esperto sul tema a sedici anni, con tutti i tabù che abitano la nostra società?
Anche le sue amiche, in particolare Skye, che pare essere la più spavalda, la punzecchiano sull’argomento con frequenti provocazioni, e la pressione la condurrà a vivere uno sbrigativo e tutt’altro che eccitante rapporto con Paddy, classico giovane ragazzo eteronormato che al contrario apparirà estremamente soddisfatto di essersi portato a letto l’ennesima ragazza carina in vacanza. Quello che prima per Tara era imbarazzo misto a curiosità data l’inesperienza, si trasformerà in una sensazione ben peggiore e molto più profonda, di disagio, se non disgusto, nell’aver percepito il proprio corpo come usato distrattamente e poi messo da parte subito dopo. Senza che vi sia stato un briciolo di coinvolgimento o di piacere. Lo stesso ragazzo arriverà ad abusare di Tara una mattina mentre lei dorme, cosicché da alimentare il climax crescente di riluttanza e vergogna provate dalla ragazza – che tuttavia, per non tradire il suo personaggio né le aspettative delle amiche, finge fino alla fine che quella vacanza sia stata la migliore della sua vita, come da piani. Sarà bellissima e liberatoria la corsa in aeroporto fatta insieme all’amica Em prima del ritorno a casa, che, sbalordita dal racconto le sussurra ce la faremo.




Purtroppo in quanto giovani ragazze, e più in generale in quanto donne, è fin troppo facile ritrovarsi in situazioni in cui il contatto fisico o il sesso, seppur consensuali, vengano percepiti come un obbligo imposto, a causa di pressioni esterne (o anche auto-convinzioni errate), oppure, quando non vi è il consenso, ritrovarsi in situazioni di molestia o abuso. In questo secondo caso la sensazione è tremenda e complicatissima da descrivere, e quello che colpisce di How to Have Sex è che Molly Manning Waker ci riesce in modo eccezionale, facendolo sembrare semplice. Complice l’interpretazione straordinaria di Mia McKenna-Bruce, con la macchina da presa che spesso si sofferma sul suo sguardo terribilmente scosso e perturbato, che ci dice tutto senza bisogno che la ragazza pronunci nemmeno una parola: Tara è amareggiata, delusa, confusa, triste, si sente sbagliata, svuotata, violata, colpevole.
Una delle cose che mi hanno spinto a scrivere questa riflessione sul film, per altro, è il modo in cui alcune delle mie conoscenze maschili mi hanno parlato delle loro opinioni al riguardo. Un mio caro amico mi ha detto che inizialmente, senza un confronto post visione con altre ragazze, non aveva percepito nel personaggio di Paddy la “malizia” che lo contraddistingue. Il fatto è che tra i comportamenti di Paddy vi è anche un abuso, un atto sessuale perpetrato senza consenso. E se uno sguardo maschile del tutto in buona fede non percepisce questo sin da subito, significa che la strada per decostruire la cultura dello stupro è ancora lunga. I commenti dei miei amici uomini, di fatto, erano tutti simili e uniti da un unico comune denominatore “sono maschio, pertanto non possiedo quel tipo di sensibilità necessaria per sentire nel profondo quello che vive la protagonista”. Credo sia superfluo aggiungere che con questo non si intende che nessun uomo sulla terra capirà mai cosa voglia dire per una donna subire situazioni spiacevoli o abusi sessuali. E’ chiaro, però, che far in modo che la totalità del genere maschile acquisisca quel tipo di sensibilità, costituisca un percorso lento e graduale, ma assolutamente necessario. E ritengo che film come How to Have Sex siano un tassello importante in questo viaggio di sensibilizzazione ed educazione al rispetto del corpo delle donne. Soprattutto se si pensa che non sempre le generazioni più giovani hanno gli strumenti adatti per destrutturare quei concetti figli della società di stampo patriarcale e dati ormai per assodati.