Il Giappone invisibile di Naomi Kawase in Yakushima’s Illusion


In Giappone, si può scomparire senza lasciare traccia di sé. Vengono chiamati Johatsu, che significa letteralmente “evaporare”. È un fenomeno sociale tanto diffuso quanto taciuto, un’ombra che aleggia su una società in cui il suicidio stesso rimane un tabù. Naomi Kawase lo porta sullo schermo in Yakushima’s Illusion, film presentato in concorso internazionale alle 78esima edizione del Locarno Film Festival, affiancandolo a un altro silenzio culturale: quello dei trapianti d’organo. Se il primo resta implicito, il secondo viene affrontato apertamente attraverso dialoghi tra medici e pazienti, fino all’inevitabile corsa contro il tempo per un cuore da donatore. La coesistenza di questi due temi crea un film complesso e forse eccessivamente stratificato. Johatsu e trapianti d’organo avrebbero ciascuno la forza per sostenere un’opera autonoma, e a tratti l’intreccio appare sbilanciato. Tuttavia, la regista riesce a mantenere lo spettatore legato allo schermo grazie alla sensibilità con cui racconta le storie, sostenuta dall’intensità interpretativa di Vicky Krieps nei panni di Corry, giovane medico francese che grazie al suo sguardo straniero riesce a far entrare il pubblico occidentale dentro la cultura giapponese. La sua presenza diventa il filo che unisce mondi apparentemente inconciliabili.
Al di là della trama, il film trova la sua vera coesione nella natura. La foresta di Yakushima non è semplice cornice, ma personaggio vivo, ancestrale, che veglia silenziosa sui destini umani. Le sue radici millenarie sembrano custodire memorie che precedono e sopravvivono all’uomo; i tronchi monumentali restituiscono l’idea di un tempo ciclico, che continua a scorrere indipendentemente dalle tragedie individuali. Kawase la filma come un essere respirante, con la stessa attenzione riservata ai volti dei protagonisti, e così la foresta diventa specchio delle loro emozioni più intime. In un Giappone sempre più urbano, la foresta di Yakushima appare come un’illusione, un altrove che promette quiete e armonia collettiva. Immergersi equivale a entrare in una dimensione sospesa, quasi spirituale, in cui il dolore si dissolve per qualche istante. È un luogo di rifugio e di rinascita, un paesaggio che sembra ricordare allo spettatore che, nonostante la fragilità delle esistenze individuali, esiste qualcosa di più grande, durevole, che resta. Kawase dichiara che la memoria è un’estensione della realtà: ciò che è stato continua a esistere sotto nuove forme. La foresta incarna perfettamente questo concetto: è memoria vivente, fatta di anelli concentrici che raccontano secoli, di radici che collegano il passato al presente. Non a caso il titolo giapponese del film si traduce come un’illusione che una volta è stata, alludendo a una speranza condivisa, a una memoria collettiva capace di trasformarsi da illusione in possibilità.


Yakushima’s Illusion non è un film facile né lineare. È un’opera che stratifica temi, immagini e riflessioni, e che forse paga la scelta di abbracciare più questioni di quante riesca davvero a contenere. Eppure, la delicatezza della regia, la forza della natura come asse narrativo e l’interpretazione di Krieps lo rendono un’esperienza cinematografica intensa, sospesa tra ricerca documentaria e sguardo poetico. È un film che parla al pubblico internazionale proprio perché osserva il Giappone da una prospettiva straniera, restituendone contraddizioni, silenzi e fragilità con uno sguardo intimo e universale.

