La Chimera – Sogni infranti e Memorie perdute

Giulia Savaia

11/30/20247 min read

Esiste una dimensione che sfugge a ogni definizione, un mistero che si insinua nella quotidianità, lasciando dietro di sé scorci aperti, che seducono e invitano a percorrere il confine tra il visibile e l’invisibile. È nelle pieghe di questi spazi silenziosi e sfuggenti della narrazione, che si dispiega la vera riflessione, la poesia, de “La Chimera”, un film che trasforma ogni dettaglio in un invito a esplorare ciò che va oltre l’apparenza.

Si tratta di un viaggio alla ricerca di significati, ma attraverso modalità che sfuggono alla razionalità: sogno e mistero diventano strumenti nelle mani della regista Alice Rohrwacher, veicoli di scoperta, sia personale che del mondo. Come ha dichiarato lei stessa, “Il cinema deve osare sondare altri percorsi cognitivi, emotivi”, un concetto nel quale riecheggia una forte influenza felliniana, dove situazioni e contesti concreti si tingono di surrealismo e simbolismo, invitando lo spettatore a oltrepassare i confini della logica per abbracciare l’immaginazione.

In questo senso la Tuscia dei primi anni ‘80 del novecento, si presenta come un luogo sospeso, fuori dal mondo, un microcosmo in cui il sacro è stato violato dalla modernità: la regia, con la sua sensibilità visiva, cattura la delicatezza di un luogo che, da un lato, conserva una bellezza palpabile legata alla sua storia e al suo paesaggio, dall’altro è una terra profondamente ferita dallo sviluppo industriale. Emblema di questo contrasto è il ritrovamento di un tempio etrusco da parte dei protagonisti, nei pressi di una discarica.

Sacro e profano dunque coesistono, ma questa non è l’unica dicotomia che attraversa il film: già da “La Chimera” del titolo, si profila un universo abitato da numerose contraddizioni. Nella sua essenza mitologica, essa è una creatura ambivalente, nella quale convivono differenti forme e nature, ciascuna con le proprie caratteristiche, vizi, virtù e ambiguità. Nel contesto del lungometraggio diventa metafora per i suoi personaggi, le cui vite sono spezzate, frammentate e intrappolate in un eterno inseguire dei sogni vani, irraggiungibili.

I Tombaroli sono i primi a vivere tra speranze e disillusioni. Simbolo di una generazione segnata da un sogno di riscatto, per loro la ricchezza, il guadagno facile, appare come una possibilità concreta.

Nonostante le loro ricerche affannose e pericolose, essi sono l’ultimo anello di una gerarchia invisibile, pedine di un gioco più grande, le cui regole sono dettate dai grandi mercanti e i collezionisti d’arte, riscossori del vero profitto.

In questo scenario, la figura del tombarolo appare piccola, marginale: “Il tombarolo è una goccia nel mare” intona il cantastorie del film (che si fa dunque anche metanarrativo), insignificanti eppure intrinsecamente legati a un mondo che li sfrutta.

Questi individui sono la generazione, ormai adulta, cresciuta negli anni della ripresa dopo la guerra, della piena occupazione, della definitiva affermazione di un’economia capitalista, nel quale i mondi contadini si disgregano e il mondo industriale diventa il perno delle occasioni di impiego.

Sono inevitabilmente figli di una cultura materialistica, promotrice del credo che nulla sia più sacro, che tutto possa essere venduto e comprato, come mera merce.

Nei decenni successivi, il “boom economico” si trasformerà in crisi e il sogno di un futuro sempre più prospero, sostenuto da un sistema efficiente, crolla.

Le promesse non mantenute di questa società “del benessere” si traducono in un profondo disincanto nei giovani, i quali, cadendo vittime della loro stessa educazione, si troveranno a vivere in prima persona le contraddizioni di un’Italia che si modernizza senza un vera evoluzione nei valori o un miglioramento civile.

In questo clima di incertezze e di povertà, sono costretti a cercare strade alternative, anche per ridefinire la loro identità, ora che il mondo che li ha modellati, li ha traditi.

Allora si rivolgono alla violenza come strumento di emancipazione, arrivando a sfidare la legge dei morti: l’operato del tombarolo devasta la memoria collettiva e spezza il rapporto con il passato, rappresentato dalla cultura etrusca, la quale vedeva uomo e natura uniti in un sistema armonico.

Difatti i singoli componenti della banda sono soli.

Nonostante agiscano sempre in compagnia, in ognuno di essi prevale una dimensione individualista, a tratti cinica: nel loro presente non c’è più spazio per i grandi ideali, quelli che avevano ispirato il movimento del ‘68, l’individuo abbraccia un comportamento sempre più pragmatico e rimane loro solo l’aggregazione.

Come personaggi senza una vera personalità, i tombaroli, sono il risultato della modernità, di un sistema che sfrutta la loro ignoranza e speranza, nel quale procedono succubi, senza però esserne veramente consapevoli.

In questa Italia allo sbaraglio, occorrerà “lo straniero”, non solo nella geografia ma anche nel pensiero, per mettere in discussione l’ordine stabilito.

Arthur, inglese, archeologo di formazione e vero protagonista della storia, si opporrà alla mentalità, sia degli amici tombaroli, che dei grandi mercanti d’arte, i quali riducono l’antico a un semplice oggetto da saccheggiare.

Come la creatura mitologica è un individuo scisso, dominato da spinte opposte: si presenta spesso chiuso, scontroso, ma nasconde un animo gentile, pervaso da uno spasmodico anelito verso la ricerca di senso e di redenzione.

Seppur smarrito, disincantato, alla stregua dei suoi compagni, è l’unico ad essere consapevole del vuoto interiore che lo attanaglia, che sa riconoscere il valore di quei “coccetti”, vere e proprie fascinazioni ai suoi occhi, e dunque soffre.

Il suo tormento è principalmente legato alla perdita dell’amata, Beniamina, e la sua ricerca è un continuo tentativo di ricongiungersi a lei. Ma la chimera di Arthur non è solo l’incarnazione di un desiderio che lo trascina senza mai permettergli di afferrarlo, è anche un dono soprannaturale: sente il vuoto sotto la terra, forse per un’affinità con il suo spirito, grazie al quale riesce a scovare le tombe etrusche.

Nonostante l’atmosfera talvolta scanzonata, quello di Rohrwacher è un film sul dolore, sulla trasformazione che si subisce dopo che qualcosa si è infranto e di conseguenza sull’impossibilità di essere la stessa persona, ma solo un’ombra del passato. Così Arthur, fin dall’inizio del film, è un fantasma sulla soglia di un altro mondo, i suoi ultimi momenti sulla terra sono un purgatorio che inevitabilmente lo condurrà verso la fine.

Un pellegrinaggio che si sviluppa per contrasti, non solo metaforici, ma anche visibili sulla pellicola: il buio del passato, del sacro, del mistero e dell’immortale, in opposizione alla luce del presente, del secolare, del tangibile, che condanna l’attimo alla caducità del mondo mortale.

“Lo sai che il sole ci segue”, così si apre il film, un’affermazione che ci ricorda ciò che siamo: effimeri, in costante invecchiamento, imperfetti, osservati da una forza superiore. Helios ci guarda da lassù, “colui che tutti vede e tutto ascolta”, ma che impedisce noi di conoscere oltre il contingente.

Per quanto si voglia inseguire il buio eterno alla fine il raggio luminoso ci nega ogni via di scampo e la vita fa il suo corso. Simbolica allora la sequenza in cui, aperta una tomba sigillata, i dipinti vengono prosciugati della loro vivacità, come a testimoniare la corruzione del tempo.

Altro elemento simbolico, questa volta afferente al mondo animale, appare nella figura degli uccelli. Arthur osserva gli stormi, come un àugurio etrusco, come se questi sapessero qualcosa che lui ignora. Decisivo sarà il grido di un corvo, presagio della sventura imminente. In una scena finale che lascia ampio spazio di interpretazione allo spettatore, si ha forse il compimento del destino di Arthur, il cui desiderio di una vita più piena, di un legame più intellegibile con l’universo, lo legano in principio al mondo dei morti. Gli uomini, in fondo, possono cercare significati solo nel tempo e nello spazio della loro esistenza.

È forse un atto di tracotanza il suo? La chimera di Arthur è un’utopia, un sogno irraggiungibile, e come ogni eroe tragico ne sarà vittima. Forse è la sorte di un uomo perso nella memoria, nel ricordo che non vuole lasciare, anche quando esso è appeso a un filo…e non trova via d’uscita, non può vivere solo alimentando le sue chimere, quindi muore come risultato di quello che è diventato.

Dall’altro canto, se per gli etruschi la morte non rappresentava la fine della vita, ma una sua continuazione, questo profondo senso di accettazione unito all’aurea di lieto fine che avvolge la scena conclusiva, potrebbe suggerire che egli abbia infine accettato l’impossibilità del suo sogno di amore eterno. Prospettiva che vedrebbe nel ricongiursi con lo spirito di Beniamina, nello spezzarsi di quel filo, sancita l’espiazione dei suoi peccati e il ritrovamento della propria chimera. Non nella vita, ma nella morte che ne è la naturale conseguenza

Ad ogni modo, certo è che solo la morte lo condurrà avanti.

Arthur incarna l’attaccamento al passato: pur avendo l’opportunità di costruire qualcosa di nuovo, con un’altra donna, Italia, non riesce. Ella, al contrario, rappresenta il futuro e la realtà, alla quale riporterà Arthur, facendogli capire che un mondo fondato sulla mancanza di rispetto per gli avi è sbagliato.

Nella dialettica della modernità, Italia è sintesi tra l’atteggiamento dei tombaroli e quello di Arthur: è la speranza declinata nella concretezza delle azioni, nella progettualità. Il suo è un sogno che non si è ancora infranto, che può farcela proprio perché radicato nell’immanente: lei crede in un futuro migliore, non solo per se stessa e per la sua famiglia, ma anche per chi vive le sue stesse difficoltà. Proprio in quest’ottica dà vita a una comunità tutta al femminile, nella stazione dimenticata di Riparbella. Emerge così anche il tema della ricontestualizzazione, in contrapposizione alla profanazione: dare una nuova vita, un senso a ciò che è stato abbandonato.

Infine, tra il mondo di Arthur e d’Italia, si inserisce la figura di Flora, madre di Beniamina, il cui universo è totalmente vano e illusorio. Flora vive nella convinzione che prima o poi tutto si sistemerà, se si rimane fermi. Simboleggia coloro che rifiutano il cambiamento, che si sottraggono al necessario avanzamento. Lei si limita a costruire una narrativa personale al limite del sogno, senza però accorgersi che nel frattempo il mondo che la circonda sta cadendo in frantumi.