La maschera del professore: La prima notte di quiete di Zurlini


Una sorta di bandiera garrisce al vento: un lungo doppiopetto dentro il quale brillano un paio di occhi azzurri impossibili. Alain Delon attraversa la bruma di Rimini d’inverno, cammina sul molo come un’apparizione. In La prima notte di quiete è Daniele Dominici, professore supplente di Lettere.
Il film esce nel 1972, scritto da Valerio Zurlini con Enrico Medioli, e arriva dopo un periodo difficile per il regista. Nonostante il Leone d’oro ottenuto nel 1962, ex aequo con L’infanzia di Ivan di Tarkovskij, Zurlini affronta con amarezza la realtà di un cinema italiano che non lo supporta fino in fondo. Come lui stesso dichiarò in un’intervista: «Il cinema italiano è morto, non esiste più. E che esistano degli autori non vuol dire che esista un cinema.»
In La prima notte di quiete, i vitelloni di Fellini, vent’anni dopo, sono diventati brutali, sfacciati, imbolsiti. Seguiamo Dominici, professore svogliato e assente che riempie le sue giornate grigie con partite a carte e piccole ribellioni quotidiane. Arriva a Rimini all’inizio dell’inverno con Monica (Lea Massari), compagna umorale e innamorata; si ritrova ben presto in un gruppo di mista umanità con cui andare al night e giocare a carte. E si invaghisce di una sua studentessa, Vanina Abati (Sonia Petrovna), ragazza misteriosa dal passato doloroso, già contesa da un altro “vitellone”.
In questo film coltissimo, denso di riferimenti alla tradizione figurativa e letteraria italiana ma anche lieve e delicato, Zurlini smantella con precisione la figura del professore, restando entro i confini del melodramma. Non esiste più il docente autoritario, né il maestro con la bacchetta: e soprattutto non è subentrato nulla al suo posto. Dominici non vuole abitare quel ruolo - la versione francese sottolinea il gesto titolando il film Le professeur -, lo intuisce subito il preside, che scorre il suo curriculum con tono sentenzioso:
«Mogadiscio, Agrigento… poi venditore di libri a rate… scuola itinerante in Sardegna… e qui vedo un altro periodo di aspettativa. Non mi sembra, diciamo, che lei abbia la vocazione all’insegnamento.»
La stessa resistenza colora la scena in cui gli studenti chiedono al professore di firmare un documento politico: siamo nel pieno delle agitazioni liceali, ma Dominici, come svuotato, risponde come recitando una formula:
«Sono fatti vostri, io non voglio entrarci. Io sono qui soltanto per spiegarvi perché un verso del Petrarca è bello. Tutto il resto mi è estraneo, mi annoia. Per me neri o rossi siete tutti uguali: i neri soltanto più cretini… Io ho un mio punto di vista sull’insegnamento: non imporlo a nessuno. Se qualcuno vuole studiare, io sono qua. Gli altri facciano come vogliono: venire, non venire, leggere, scrivere, giocare alla battaglia navale.»
Nessuna indignazione: il rappresentante degli studenti si stringe nelle spalle. La scuola diventa così il simbolo della resa collettiva del Paese.
Rimini d’inverno è nuda, vuota, attraversata da una nebbia che sembra sospendere la vita; la tromba struggente di Mario Nascimbene amplifica questa rarefazione. Non ci sono scene di vita “vissuta”: solo attese, spazi vuoti, corpi che sembrano già in congedo.
Che sia questo il destino di chi è figlio di un’educazione eroica? Zurlini, salito in montagna come partigiano a diciassette anni, aveva davvero creduto in un mondo nuovo dopo la guerra. L’identificazione con Dominici, professore di lettere e poeta mancato, rischierebbe di appiattire il film, se non fosse che l’autobiografia del regista la rende inevitabile.
Si può provare a fare un gioco: cercare le delusioni che il professore e il regista condividono. Entrambi hanno abitato ruoli che la società percepisce come profetici o illuminati, quasi posseduti da un demone dell’arte: il poeta, il maestro, il regista. Cosa rimane a un professore quando non crede più in ciò che insegna? Cosa rimane a un regista quando sente di non riuscire a essere ascoltato perché le produzioni gli preferiscono sempre qualcun altro?
Il titolo del film acquista pieno significato proprio a partire da questa crisi. Nel racconto, “La prima notte di quiete” è il titolo della raccolta poetica di Dominici e deriva, si dice esplicitamente nel film, da un verso di Goethe. Ma quel verso non è una citazione letterale, è una rielaborazione zurliniana, un Goethe inventato, e Dominici lo pronuncia così:
«La prima notte di quiete… la prima notte senza vento, senza tempeste… la prima notte in cui finalmente si riposa.»
Dominici diventa così l’incarnazione dell’intellettuale post-bellico, passato dall’eroismo all’impotenza, e somiglia al Paul di Ultimo tango a Parigi (anche questo del 1972). Siamo nel mezzo del guado: tra il Sessantotto e il 1974, tra speranze e violenza politica imminente, tra le macerie delle autorità smantellate e le delusioni di chi aveva creduto in un mondo migliore dopo il ’48.
Come molti protagonisti zurliniani, Dominici è un deluso: non combatte più, non s’indigna, non reagisce se non quando deve proteggere Vanina. Il mondo non è migliorato nemmeno dopo il ’68; la delusione di chi aveva creduto di poter cambiare qualcosa, anche imbracciando un fucile, rimane cocente.
Rimane allora qualcuno che interpreta il ruolo in cui è capitato: dolente, anestetizzato in una provincia che sa di resa, fuori dalla stagione gaudente dell’estate. Resta un triangolo irrisolto tra il professore, la sua studentessa “bella e perduta”, e Gerardo (Adalberto Merli). E si aggiunge Spider (Giancarlo Giannini), forse innamorato del professore: il loro è il rapporto più sincero, privo di proiezioni salvifiche e pedagogiche. Un’amicizia che non vuole redimere nessuno, e sarà Spider a restargli accanto durante la sua “prima notte di quiete”.
Un’altra dimensione della sua lotta artistica emerge guardando ai progetti che Zurlini non ha potuto realizzare. Di Guendalina Zurlini aveva scritto il soggetto, ma Carlo Ponti lo fece girare ad Alberto Lattuada che con ironia amara gli fruttò un Nastro d’Argento nel 1958.
Per Il Giardino dei Finzi Contini, invece, aveva proposto e preparato una sceneggiatura insieme a Salvatore Laurani, ma divergenze con la produzione impedirono la realizzazione. Il film fu realizzato da Vittorio De Sica, con una sceneggiatura completamente diversa.
A tutto questo si somma la delusione privata e professionale. La prima notte di quiete segna il ritorno alla regia dopo due film non compresi e decine di progetti mai realizzati. L’elenco è impietoso: Il processo Murri, Il paradiso all’ombra delle spade, Al di là del fiume e tra gli alberi, Lo scialo, Gli occhiali d’oro, La zattera della Medusa (1968), Verso Damasco (1974), Il sole nero (1978).
Forse proprio per questo il film ha il passo di un congedo, anche se non è l’ultimo del regista bolognese: quello di un uomo che guarda la propria opera e la propria vita come Dominici osserva la propria, con il rimpianto amaro di un idealista che non si rassegna alla bruttezza comune del vivere. Lo slancio finale, dettato dall’ultima speranza di salvezza per Vanina, non può che essere castrato: esaudisce il desiderio implicito della quiete, della cupio dissolvi.
Elena Sofia Zaccone
