Le moltitudini di Bob Dylan nel cinema: da Dont Look Back a A Complete Unknown

Andrea Piumarta

3/4/20259 min read

Nel 2020, Bob Dylan pubblica una splendida canzone dal titolo di I Contain Multitudes, ispirata all’omonimo passaggio presente nella poesia Canto di me stesso (1855) di Walt Whitman. In questo brano l’autore parla delle sue contraddizioni, dei suoi umori e delle sue inquietudini.

«I'm a man of contradictions, I'm a man of many moods.
I contain multitudes.»


E delle sue “moltitudini”, appunto, si può parlare anche attraverso le incursioni dell’artista nel mondo del cinema. La figura iconica di Bob Dylan, infatti, si è prestata più volte al racconto filmico, sia nel cinema del reale che in quello di finzione. Quindi, prima di parlare di A Complete Unknown, ecco una selezione di film per immergersi al meglio nel mondo – anzi, nell’universo – di Bob Dylan.

Dont Look Back (1967) di D.A. Pennebaker

Questo leggendario rockumentary viene girato nella primavera del 1965, durante la prima tournée di Dylan in Inghilterra. Le vicende del film, quindi, precedono di qualche mese la sua storica esibizione elettrica, avvenuta al Newport Folk Festival nel luglio dello stesso anno. D.A. Pennebaker è uno dei maggiori esponenti del direct cinema (una variante nordamericana del cinéma vérité) ed il suo stile predilige riprese lunghe, la presa diretta e moltissimi primi piani. La sua cinepresa portatile in 16mm documenta le tre settimane di tournée che culminano con un concerto alla Royal Albert Hall. Il fulcro, però, non sono le performance sul palco, ma le vicende di un Bob Dylan quasi ventiquattrenne accompagnato dal suo entourage che include il manager Albert Grossman, il collaboratore Bob Neuwirth e la cantante – nonché sua amante dell’epoca – Joan Baez.

Il film si apre con il celebre “videoclip” di Subterranean Homesick Blues, in cui Dylan, sul retro del Savoy Hotel di Londra, mostra una serie di cartelli con i versi della canzone. Sullo sfondo, inoltre, compaiono il poeta americano Allen Ginsberg, amico del regista – e successivamente anche di Dylan –, e Bob Neuwirth. Tra le parti più interessanti della pellicola spiccano sicuramente i momenti in cui Dylan affronta le domande poco ispirate dei giornalisti, oppure il confronto sempre più passivo aggressivo con le fan che criticano le sonorità elettriche nell’album Bringing It All Back Home (1965). O anche la performance di It’s All Over Now, Baby Blue come risposta all’esibizione del “rivale” Donovan.

Il regista, quindi, si limita a osservare e riprendere gli eventi senza mai interferire e anche il montaggio cerca di mantenere il più possibile un ordine cronologico. L'unica sequenza non diretta da Pennebaker è un'esibizione di Dylan di Only A Pawn In The Game del 1963 girata da Ed Emshwiller durante le riprese di The Streets of Greenwood: documentario sui diritti civili nel Mississippi. Questa aggiunta nel film di Pennebaker, tuttavia, crea un perfetto contrasto tra l’immagine del giovanissimo poeta folk ripreso da Emshwiller e il ribelle dai capelli lunghi, occhiali neri e sigaretta.

In Dont Look Back (senza apostrofo) non c'è alcuna intenzione di esaltare, criticare o spiegare Dylan e gli altri protagonisti, ma semplicemente di offrire un resoconto fedele di ciò che è accaduto. Ne emerge comunque un Dylan multiforme: giocoso, come quando si presenta alla sua prima conferenza stampa con una lampadina gigante; riflessivo e assorto nella scrittura alla macchina da scrivere; ma anche nervoso e irascibile quando viene infastidito dai giornalisti o dagli ospiti troppo molesti di una festa in hotel.


No Direction Home (2005) e Rolling Thunder Revue (2019) di Martin Scorsese

Martin Scorsese firma due documentari su Bob Dylan (tre, contando L'Ultimo Valzer del 1978). Il primo, No Direction Home, racconta le origini dell'artista partendo dalla sua infanzia in Minnesota come Robert Zimmerman, passando per il suo debutto nella scena folk sotto l'influenza di Woody Guthrie, fino alla sua svolta elettrica e all'incidente in moto del 1966 che lo allontana dai riflettori fino agli anni Settanta.

Con l'ausilio di un ampio archivio di materiali e interviste a figure chiave della sua carriera – come Joan Baez, Allen Ginsberg e Pete Seeger – Scorsese, insieme al montatore David Tedeschi, non solo racconta la storia di Dylan, ma riesce anche a catturare lo spirito e il fermento culturale degli anni Sessanta. Oltre a immagini tratte da Festival (1967) di Murray Lerner e uno screen test realizzato da Andy Warhol risalente al ‘65, nel documentario compaiono anche frammenti di Dont Look Back, dove la macchina da presa di D.A. Pennebaker immortala un Dylan vivace, sfuggente e talvolta inquieto, mentre il Dylan intervistato nel presente appare molto più tranquillo davanti alla cinepresa e, soprattutto, più a suo agio nel raccontare la sua storia.

La seconda pellicola, Rolling Thunder Revue, vede Scorsese allontanarsi dall’approccio documentaristico tradizionale per rievocare e reinventare, attraverso il cinema, la celebre tournée di Bob Dylan del 1975-76. Partendo dal materiale girato per il film sperimentale Renaldo e Clara (1978), diretto dallo stesso Dylan, la pellicola si trasforma in un affascinante gioco tra realtà e finzione, con la complicità degli intervistati e dello stesso protagonista. Emblematica, in questo senso, è l’apertura con Sparizione di una signora al Teatro Robert-Houdin (1896) di Georges Méliès: un riferimento esplicito alla natura illusoria del cinema e alla sua capacità di riscrivere la realtà attraverso il montaggio.

Rolling Thunder Revue costruisce così un racconto più cinematografico rispetto a No Direction Home, trasformando il viaggio di Dylan in un’epica avventura musicale on the road. Accompagnato da un eclettico gruppo di poeti, artisti e musicisti – tra cui l’immancabile Joan Baez, Roger McGuinn dei Byrds, Allen Ginsberg e Joni Mitchell – Dylan si esibisce nei luoghi più disparati, dai teatri alle sale da bingo, con spettacoli di tre ore che mescolano musica e recital di poesia. E sul palco appare più ispirato e vitale che mai, dopo quasi un decennio di assenza, indossando un trucco bianco sul viso e un cappello decorato con fiori, ispirato al mimo Baptiste di Amanti Perduti (1945) di Marcel Carné.

Scorsese, affiancato ancora una volta da David Tedeschi (e Damian Rodriguez), non si limita a restaurare le immagini della tournée né a montare un classico film-concerto, ma le rielabora in una narrazione più stratificata. Tra gli espedienti più intriganti spicca la figura di Stefan van Dorp, un cineasta underground immaginario interpretato da Martin von Haselberg, che viene presentato come il responsabile delle riprese del tour e che ha quasi un ruolo da antagonista all’interno della pellicola. Anche Sharon Stone partecipa al gioco, raccontando di essersi unita giovanissima alla tournée e di aver avuto un flirt con Dylan. Più che una semplice tournée, la Rolling Thunder Revue emerge come un’esperienza artistica collettiva, una carovana itinerante che Dylan paragona alle compagnie teatrali della Commedia dell’Arte. Il tutto si svolge sullo sfondo di un’America bicentenaria, segnata dallo scandalo Watergate e da un senso collettivo di profonda disillusione.

Pat Garrett & Billy The Kid (1973) di Sam Peckinpah

Passando al cinema di finzione, nel centenario della nascita del grande Sam Peckinpah, è doveroso rendere omaggio al suo ultimo, straordinario western crepuscolare: Pat Garrett & Billy the Kid. Un'opera magnifica, seppur segnata da tantissime vicissitudini produttive, che non solo rielabora uno dei miti più celebri del West, ma racconta la decadenza, la fine del grande Ovest e dei suoi eroi pistoleri e fuorilegge. Ambientato nel New Messico del 1881, il film segue l’ultima fase della vita di Billy the Kid (Kris Kristofferson) e il suo inevitabile scontro con l’ex amico Pat Garrett (James Coburn), divenuto sceriffo e incaricato di catturarlo.

L’intera pellicola è permeata da un senso di fatalismo, che rispecchia il destino di tutti i protagonisti, e tra i personaggi più emblematici spicca Alias, interpretato proprio da Bob Dylan. Alias è una figura misteriosa, non è un pistolero né un fuorilegge, eppure la sua figura impacciata, a tratti grottesca, sembra a suo agio in quel mondo di uomini violenti e condannati. E anche le interazioni tra lui e gli altri personaggi, complice anche la “recitazione” volutamente distante di Dylan, sono sempre enigmatiche e ambigue.

A rendere ancora più affascinante l’atmosfera del film è la splendida colonna sonora composta sempre da Dylan. La musica non si limita ad accompagnare le immagini, ma diventa parte integrante della narrazione, con splendide ballate che quasi trasformano il film in un musical. Tra i momenti più toccanti spicca sicuramente la sequenza sulle note di Knockin’ on Heaven’s Door, che accompagna la morte dello sceriffo Baker: un momento intriso di nostalgia, malinconia e di immensa carica emotiva.

Io Non Sono Qui (2007) di Todd Haynes

Todd Haynes, con Io Non Sono Qui, realizza uno splendido film “ispirato alla musica e alle molte vite di Bob Dylan”. Invece di proporre un biopic tradizionale, l'intuizione geniale di Haynes è quella di strutturare il film in episodi, in cui sei attori diversi interpretano versioni differenti di Dylan, liberamente ispirate a vari periodi della sua vita.

Abbiamo quindi un criptico Arthur Rimbaud (Ben Whishaw) in una stanza d’interrogatorio; un ragazzino afroamericano (Marcus Carl Franklin) di nome “Woody Guthrie”, che viaggia clandestinamente sui treni con la sua chitarra per incontrare il vero Guthrie sul letto di morte, simboleggiando la mitologia che Dylan costruisce all’inizio della sua carriera per celare le proprie origini. Poi c’è Jack Rollins (Christian Bale), che rappresenta il Dylan dei primi anni Sessanta e delle sue canzoni di protesta. Una straordinaria Cate Blanchett interpreta Jude Quinn, incarnazione del Dylan della svolta elettrica. Il compianto Heath Ledger è invece Robbie Clark, un attore che interpreta Jack Rollins in un film biografico e che rappresenta la travagliata storia d’amore tra Dylan e Sara Lownds negli anni Settanta, fonte d’ispirazione per l’album Blood on the Tracks (1975). Infine, Richard Gere veste i panni di Billy the Kid, evocando il periodo di isolamento artistico di Dylan dopo l’incidente in moto.

Ogni episodio, inoltre, ha un suo stile distintivo: il viaggio del giovane Woody ha il tono di una fiaba, la storia di Jack Rollins viene raccontata attraverso un finto documentario, in uno stile che richiama da vicino No Direction Home. La parte dedicata a Jude Quinn, indubbiamente la personalità più iconica del film, è girata in bianco e nero e richiama da un lato il cinema di Pennebaker e dall'altro (1963) di Fellini. L’episodio di Robbie Clark adotta invece lo stile della New Hollywood, mentre quello su Billy the Kid assume i tratti di un western surreale. Il risultato non è solo uno dei biopic più innovativi e intelligenti di sempre, ma anche il miglior film di finzione su Dylan.

A Complete Unknown (2024) di James Mangold

Arriviamo dunque all’ultimo film dedicato alla vita dell’artista, A Complete Unknown di James Mangold, tratto dal libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica (2022) di Elijah Wald. Rispetto a molti altri biopic musicali recenti, il film si presenta in maniera decisamente più dignitosa. Mangold, del resto, ha già affrontato il genere con Walk the Line (2005): modesto biopic su Johnny Cash. Tra l’altro, il Man in Black compare nuovamente anche qui, interpretato da Boyd Holbrook al posto di Joaquin Phoenix.

Se Todd Haynes sceglie una narrazione frammentata e fantasiosa, Mangold opta per un racconto più convenzionale e lineare, che però finisce per risultare piatto e generico. Il problema principale sta proprio nel protagonista, Timothée Chalamet, che, pur impegnandosi nel ruolo e cantando le canzoni di Dylan, non riesce a restituire la complessità dell’artista. Il suo Dylan, infatti, appare più come una caricatura che una vera e propria interpretazione.

Anche l’uso delle canzoni risulta poco ispirato: la colonna sonora, anziché valorizzare i momenti chiave della narrazione, viene inserita spesso in modo meccanico, come se fosse un jukebox di cover. Emblematica, in questo senso, la scena in cui Sylvie (Elle Fanning) sta per partire per Roma e litiga con Bob, mentre lui, in maniera fin troppo casuale, strimpella le prime note di Don’t Think Twice, It’s All Right (1963). Un espediente trito e ritrito che cerca di sottolineare le emozioni dei personaggi senza però riuscire davvero a trasmetterle allo spettatore.

Un altro punto debole è la chimica tra Chalamet e le due attrici protagoniste, Elle Fanning e Monica Barbaro, che risulta inesistente, rendendo per nulla interessante la dimensione sentimentale del film. In particolare, la Joan Baez di Barbaro appare troppo monodimensionale e non rende giustizia alla cantautrice. Sul piano narrativo, l’idea di dipingere Dylan come il traditore della musica folk è sicuramente interessante, ma il film non riesce a dare il giusto peso né alla sua svolta elettrica né alla rottura con Pete Seeger (Edward Norton) e il mentore Woody Guthrie (Scoot McNairy). Ciò che viene raccontato manca perciò di pathos e, in particolare, l’esibizione al Newport Folk Festival sul finale non trasmette la carica rivoluzionaria che ha avuto storicamente per la popular music.


In definitiva, A Complete Unknown fallisce nel catturare la moltitudine che Dylan ha sempre rappresentato. Il film si limita a raccontare alcuni episodi della sua carriera romanzandoli quel tanto che basta, e il risultato è un’opera che, pur visivamente curata e ben confezionata, lascia poco o nulla allo spettatore una volta terminata la visione. Tutto ciò rende il film un’occasione mancata: sebbene Mangold sia un mestierante competente, il suo approccio classico finisce per appiattire il potenziale della storia. Mentre Pennebaker, Scorsese, Peckinpah e Haynes hanno saputo cogliere e restituire alcune delle tante sfaccettature di Dylan, A Complete Unknown rimane intrappolato in superficie, cercando di portare in scena un artista caleidoscopico con un racconto troppo convenzionale.