Pane e tulipani: la nostalgia di un altrove

Lara Volpato

7/7/20254 min read

Spesso in periodi affannati o di stallo, con malinconia, ci si proietta in atmosfere passate, in realtà già vissute, nutrendo l’impossibile speranza di sperimentarle nuovamente. Trattasi di un comune sentimento denominato “nostalgia”.

Se questo dolce e malinconico desiderio fosse proiettato non verso il passato, ma verso una realtà mai vissuta, in pura potenza? Accade quando si prova nostalgia per un sogno indefinito, una dimensione probabilmente idealizzata nella quale si cerca riparo, o meglio uno spazio, un tempo, un ritmo non più ravvisabile nelle circostanze presenti.

“Pane e Tulipani”, opera di Silvio Soldini, uscita nelle sale nel 2000, trasmette alla mente dello spettatore questa dolce-amara sensazione. Sono gli occhi sognanti della protagonista, Rosalba, donna di circa quarant’anni, nascosta all’interno di una famiglia tipizzata - due figli adolescenti e un marito che gestisce un’attività nel settore idraulico - a fungere da tramite per cogliere una realtà di estrema delicatezza, a tratti onirica.

La pellicola, ambientata in una Venezia, tra la primavera e l’estate, inverosimilmente straniera alle orde dei turisti, ritrae una parabola temporale e spaziale rarefatta, non facile da collocare cronologicamente, ma che ammalia come un’attraente e familiare melodia da cui lasciarsi cullare.

Questo mondo in bilico tra sogno e veglia è il campo d’azione di una donna che, evasa dai vincoli dell’abitudine, ritrova se stessa. Si tratta tuttavia del breve raggio di una parentesi, che Rosalba vive intensamente con l’amara consapevolezza di dover ritornare al mondo da cui era inizialmente fuggita.

Ma cosa di preciso ha determinato la sua evasione? L’incipit del film illustra perfettamente le ragioni.

“Pane e tulipani” si apre con l’immagine del monumentale tempio di Cerere, appartenente al sito archeologico di Paestum, meta di una massa uniforme di visitatori appena scesi dal pullman turistico, tra i quali si confonde la famiglia di Rosalba, in gita fuori porta. Il cicaleggio in sottofondo e il brusio generato da parole e dialoghi vuoti abbozzano un’atmosfera pesante che opprime, fino ad annullare, la voce e l’immagine della donna. Nella realtà, dove ordinariamente si muove, non trova spazio, nè libertà: viene trascinata a mo’ di fantoccio dal marito verso una colonna dove “è un classico” fare la foto, in autobus nella strada di ritorno parla al figlio, ma le sue parole si disperdono tra i discorsi degli altri e il suo volto scompare tra le sequenze che arricchiscono la scena.

La sensazione d’esordio è quella di una pesante monotonia che risuona come un brusio, a cui Rosalba pare ormai essere assuefatta; fin quando il caso, non sempre malevolo, le presenta un’opportunità.

Infatti la protagonista, forse non così inconsciamente, approfitta della propria trasparenza. Dopo essere stata accidentalmente “dimenticata” in autogrill dalla famiglia a conclusione della gita, non aspetta intimorita il ritorno del marito Mimmo, ma si avvia verso casa facendo autostop, ritrovandosi però passeggera in un’auto diretta a Venezia, dove Rosalba non era mai stata.

Inizia il viaggio di riscoperta, quello definito nelle telefonate con Mimmo “una piccola vacanza”, certo temporanea, ma con data di ritorno da stabilire.

A Venezia, tra una casualità e l’altra, si colgono i passi leggeri di una donna che re-impara a danzare secondo il proprio ritmo, a rivivere fisicamente e sensorialmente. Quella di Rosalba è un’esperienza immersiva nel reale (paradossalmente in un contesto dalle sfumature inverosimili).

Lavorando in fioreria conosce i profumi e i colori dei fiori. Trova una fisarmonica che le ricorda di saper perfettamente suonare. Costruisce una tenera relazione con il suo ospite, Fernando, cameriere di origine irlandese, in passato cantante. Un uomo che non urla assertivamente, ma parla con cadenza armonica, che la osserva e ascolta con dolcezza.

La riscoperta di se stessa parte innanzitutto dal ritrovamento di un mondo dai mille stimoli percettivi, nel quale è ancora possibile cogliere la morbidezza del pane, lasciatole ogni mattina per colazione dal suo ospite, e il profumo dei tulipani.

Nonostante ciò, mentre vive tale esperienza, Rosalba pare percepirne l’inevitabile e ravvicinato esaurimento, lasciandosi avvolgere da un velo di malinconia per la consapevolezza di dover giungere ad un epilogo.

L’identità di madre e moglie la strappa al delicato mondo sospeso della città lagunare, restituendola alla realtà ordinaria tanto rapidamente quanto da quest’ultima si era allontanata.

Così da un giorno all’altro Frenando trova accanto ad un mazzo di tulipani un biglietto di commiato e la presenza della donna svanisce nuovamente.

Rosalba torna a Pescara, in una casa per nulla cambiata. In lei emerge il mesto sguardo rivolto ad una parabola interrotta, che non saprebbe come riaprire.

Tuttavia, ora conserva la speranza di una possibile e nuova realizzazione del sogno svanito. Le norme, i comportamenti consueti e ragionati la ancorano ai suoi doveri, ma la memoria di quanto vissuto permane. Cresce pertanto una nostalgia certamente rivolta ad una parentesi passata, quest’ultima però è rimasta aperta, priva di una degna conclusione e potrebbe dunque ripresentarsi davanti agli occhi di Rosalba.

L’opera di Soldini non giunge ad un epilogo razionale, ma rimane sospesa, lascia intendere una possibile rinnovata realizzazione della dimensione sognante vissuta dalla protagonista che nella scena finale appare nuovamente in un campo di Venezia, intenta ad accompagnare con la fisarmonica la voce di Fernando.