Parthenope, era tutto troppo prevedibile
« L’Amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento… o forse non è così ? »
Nella sua ultima opera, Sorrentino si rivela ancora una volta un abile prestigiatore, rispondendo alla domanda “truffa o mistero?” con un numero ormai parte del suo repertorio: la ricerca di un grottesco sempre più opulento. Con un’estetica che prova a rimanere stilizzata anche a contatto con il barocco della sua città: Napoli.
La narrazione è strutturata su un realismo “magico” facendoci oscillare fin da subito tra l’incanto e il disincanto con immagini che sfidano ogni tentativo di interpretazione razionale. La sua logica surrealista segue il sogno, le scelte di Parthenope sono spesso fini a se stesse e non consequenziali. E quando le panoramiche si allargano siamo sicuri di essere di fronte alla selvaggia vitalità di un racconto epico nello spazio e nel tempo. È l’epica di una donna che si getta nella vita: prima nella città, poi nell’osservazione del mondo e, infine, nel tempo stesso. Parthenope, corrotta dalla tragica morte del fratello e immersa nelle opportunità di una Napoli moderna, è alla ricerca di un significato nascosto nella quotidianità. Un viaggio eroico e perverso, segnato da una poetica crepuscolare, dove il tragico è precondizione per l’esistenza. Le sue avventure non sono radicate in una gioventù spensierata, ma nell’esperienza malinconica di chi sa che nulla è destinato a durare. Sorrentino rifiuta ogni tono eroico o sublime, abbracciando invece una visione quotidiana della vita, celebrando l’amore per le cose che vanno e vengono e per quei momenti oscuri che si insidiano nelle pieghe più intime dell’essere.


Gli incontri che segnano la vita di Parthenope sono come visioni, fiere che la accompagnano nel suo cammino. Luisa Ranieri, nel ruolo di Greta Cool, è travolgente, interpretando una diva che, pur adorata dal pubblico, non riesce a fare a meno di focalizzarsi sui difetti, in una lotta interiore che la rende vulnerabile e distante. Gary Oldman, nei panni di John Cheever, uno scrittore tormentato, trova in Parthenope l’ultimo barlume di speranza e bellezza. Silvio Orlando, come professor Marotta, è un mentore distaccato che si scioglie lentamente di fronte alla complessità della sua allieva. Infine, Marlon Joubert, nel ruolo di Roberto Criscuolo, guida Parthenope nel mondo oscuro del crimine, portandola a scoprire un legame inevitabile con il lato più morboso della vita. Seduce ognuno di loro, ma la sua seduzione non è solo una questione di bellezza: è una seduzione dell’anima, che agisce nei delicati giochi di potere e desiderio che attraversano i rapporti umani. Parthenope è triste e frivola, determinata ma svogliata, viva ma sola, eppure sorride, consapevole della sua solitudine ma anche della sua potenza.


La vera tragedia di Parthenope è che la lettura del film non è affatto immediata. Sorrentino, nonostante la sua indubbia maestria nel costruire immagini, finisce per intrappolarsi in una rete di elementi che offuscano la sua narrativa, rendendo il film difficile da afferrare nella sua interezza. Il tentativo di naturalizzare e umanizzare i personaggi, per rendere le loro scelte più razionali e comprensibili, non viene portato avanti con sufficiente cura. Sembra impedire ai personaggi di prendere vita, appaiono come burattini nelle mani del regista, che temendo di perderne il controllo, non li lascia mai evolvere davvero. Così, tutto rimane nell’ambito di una patinata trasposizione che non riesce a svelare la vera sostanza. L’intervento delle fiere, trasposizioni dei modi d’essere di Napoli, il più delle volte stride non riuscendo ad amalgamarsi con il resto della narrazione. A questo si aggiunge l’abuso di battute ad effetto, che Parthenope sembra sempre pronta a sferrare. Questo cliché, che nei momenti più cruciali si trasforma in una risoluzione sterile e vuota, finisce per svuotare il personaggio della sua profondità, riducendolo a uno stereotipo banale e sfuggente. Ciò non solo indebolisce il suo impatto emotivo, ma diventa anche una critica indiretta alla costruzione del personaggio stesso, tratteggiato con poca convinzione.


Sorrentino esplora i temi dell’epica di Joyce: il tempo, la memoria e l’identità, riflettendo sulla giovinezza e sulla sua apparente spensieratezza. La gioventù è vista non come una nostalgia, ma come una celebrazione della vitalità, una fase in cui la leggerezza nasconde un’anima tormentata e ogni esperienza è un’epica imperfetta. Tuttavia, il regista si perde nel tentativo di esplorare questo tema, trattandolo più come un esercizio stilistico che come una riflessione autentica. Le sue sequenze, talvolta vicine a una parodia del proprio cinema, non riescono a cogliere la gravità della giovinezza e finiscono per scivolare nel ridicolo. Parthenope, il personaggio centrale, è bloccata in una frivolezza che non evolve, diventando più un cliché che un’entità reale. La ricerca di un’epica giovanile finisce per diventare un’illusione di profondità, priva di un vero senso di cambiamento o vitalità.
Così, Parthenope diventa un film che, pur cercando di celebrare la bellezza dell’esperienza giovanile, non riesce mai a toccare un’emozione duratura, risultando in una parodia di sé stesso senza mai risollevare il suo personaggio da una triste superficialità.