The Brutalist ci racconta il capitalismo nell’arte


I registi sono sempre stati affascinati dagli architetti. Forse perchè, proprio come loro, si ritrovano a costruire. Che sia una scena o un grattacielo, il lavoro di entrambe le discipline è frutto di progettazione, di manipolazione dello spazio e un contradditorio equilibrio tra creatività visionaria e controllo razionale.
Nel cinema, la narrazione della professione dell’architetto ha assunto innumerevoli sfaccettature: da The Belly of an Architect (1987) di Peter Greenaway, in cui l’ossessione del protagonista Stourley Kracklite per la perfezione architettonica si riflette nei suoi dilemmi esistenziali, creando una tensione tra il progetto ideale e la fragilità umana, al recentissimo Megalopolis (2024) di Francis Ford Coppola, che
racconta un futuro utopica in cui Cesar Catilina si pone come architetto salvatore per ricostruire la sua nuova città ideale, mettendo in discussione il potere, tradizione e innovazione.
E in questa narrativa trova posto anche The Brutalist (2024) di Brady Corbet, scritto con la moglie Mona Fastvold, sceneggiatrice e regista. Un’opera , per utilizzare un archetipo, monumentale e violenta: con una durata di 3 ore e 35 minuti e girata in VistaVision 70mm, Brady Corbet propone la storia di una ricerca di monumentalità e perfezione. Questa ricerca costante è quella che spinge il protagonista, l’archietto di scuola Bauhaus ebreo-ungherese László Tóth (interpretato da Adrien Brody, premio oscar
per The Pianist 2002), sopravvissuto all’Olocausto, ad andare negli Stati Uniti per intraprendere una nuova carriera e per riscattarsi dagli orrori subiti a Buchenwald.


Il film si apre a New York con un controcampo fittizio, che distorce la Statua della Libertà, simbolo del Sogno Americano, che prima seduce e poi ti colpisce alle spalle. Simbolo di una terra promessa che si presenta come liberatrice ma che alla fine imprigiona. Una terra promessa contemporanea, da contrapporsi all’altra Canaan, l’Israele. The Brutalist – titolo che richiama con la sua terminologia sia la corrente architettonica del brutalismo sia la brutalità di un Paese che abbraccia il talento dello straniero fino a soffocarlo – mira a togliere la
maschera al capitalismo americano, alla sua onnipotenza e alla sua sfacciataggine. Nell’incontro tra l’architetto Tóth e il ricchissimo mecenate imprenditore Van Buren, il quale ostacolerà la visione artistica del protagonista fino a consumarla, il regista racconta il difficile rapporto tra arte e denaro, tra cultura e società contemporanea.
L’architettura per László Tóth si fa carico di rappresentare una questione che oggi più che mai è di attenzione pubblica. Per tutti i suoi progetti, da una semplice libreria al suo prezioso figlio di acciaio e cemento mai nato, l’architetto ungherese sacrificherà tutto, solo per lasciare un segno permanente nel nuovo mondo e per colmare la necessità di rivalsa sociale, di sentirsi affermato in una società apparentemente anti-razzista, ma che in realtà ripudia lo straniero.


The Brutalist di Corbet non parla solo di architettura, di arte e di guerra, ma si propone come il racconto esplicito della divergenza tra il capitalismo ed l’arte nel suo senso più generale, raccontando il sogno degli artisti che si scontrano inevitabilmente con la realtà di un sistema governato dalle regole del denaro.