Waking Hours - Al buio si teme di più la luce.

Amanda Milaqi

9/9/20253 min read

Cosa succede quando il motivo del tuo viaggio ti conduce verso un nuovo percorso che non avevi previsto? Ai due registi Federico Cammarata e Filippo Foscarini succede questo: dopo essersi recati sul confine serbo-ungherese per riprendere la vita di insetti in via d’estinzione, capita loro di imbattersi in una comunità invisibile e silenziosa, nell’oscurità profonda della foresta.

Si chiama Waking Hours, il lungometraggio di Federico Cammarata e Filippo Foscarini, che chiude la Settimana Internazionale della Critica all'82ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia il 4 settembre, con uno sguardo inedito sulla Rotta Balcanica. Prima di iniziare, Foscarini raccomanda al pubblico di abituarsi al buio, perché nel buio si può trovare molta luce. Uscita dalla sala, posso dire di aver trovato una luce fioca che mi ha creato un forte disagio per non essermi mai fatta le domande giuste.

Il film mostra un gruppo di passeurs afghani o “trafficanti” - qatchaqbar o qatchaqchi in dari/pashto/persiano* (fonte: link) - ripresi in una notte senza fine, mentre sembrano condurre una vita quasi normale nel loro accampamento, dove cucinano piatti che ricordano casa, raccontano storie di arresti e violenze subite dalla polizia e ascoltano musica, scrollano sui social e si ricongiungono virtualmente con i loro cari.

Una notte tra reale e irreale, che non solo fa vedere persone sul confine ma ci ricorda di come l’umanità stessa sia al confine e a volte l’abbia anche varcato con prepotenza. Mentre ascoltiamo conversazioni al telefono di passeurs che promettono la loro fedeltà e lealtà nel prendere in mano vite di persone a loro sconosciute, siamo di fronte a una verità ancora più scomoda: siamo complici delle condizioni in cui si trovano i migranti e proprio come in sala, spettatori silenziosi che non vogliono reagire.

Le aree di crisi sono in forte aumento e le persone sono in fuga da guerre, carestie, disastri ambientali, dittature e persecuzioni: dall’Afghanistan alla Siria, dal Kurdistan allo Yemen, fino alla Libia e ai Paesi subsahariani. Eppure il dramma delle persone che scappano dal loro Paese non finisce mai, la totale assenza di canali legali di emigrazione espone milioni di persone al ricatto dei trafficanti, trasformando il viaggio in una roulette mortale. L’Unione Europea, affidando a regimi autoritari il compito di bloccare i flussi, non fa che alimentare un circolo vizioso.

Come scrivono nel 2016 Peter Tinti e Tuesday Reitano in Migrant, Refugee, Smuggler, Saviour: “I passeur esistono innanzitutto perché nel mondo che abbiamo creato, in cui la necessità impone di partire senza che vi siano molte opzioni legali disponibili, essi si rivelano fondamentali”* (fonte: link) .

Tuttavia, tutto ciò non traspare dalla visione del lungometraggio, che sembra solo dare uno squarcio di (ir)realtà a chi ha già intuito ciò che succede. Sembra che voglia essere un esperimento artistico piuttosto che un film che prende posizione politica e afferma qualcosa. Forse, così facendo, non risponde alla violenza del confine, ma apre al dialogo, tra spettatori e migranti, tra cinema e realtà.

Proprio i due registi raccontano quanto sia stato complesso entrare in quel mondo invisibile. «All’inizio abbiamo filmato da lontano, usando teleobiettivi per riprendere i taxi che portavano i migranti al confine, senza interferire o rischiare – spiega Cammarata –. Con un clan in particolare, però, abbiamo costruito un rapporto graduale. Entravamo nel loro accampamento quasi ogni sera, passando ore insieme, il che ci ha permesso di conoscerli e creare momenti di intimità. Non era scontato che ci accettassero: inspiegabilmente, hanno capito che non volevamo denunciarli o metterli in difficoltà».*(fonte: link).

L’equilibrio fragile e il patto silenzioso ma allegro suggellato da un kebab (come raccontano in sala i due registi), si interrompe bruscamente dopo poco. Le riprese durano solo cinque settimane, perché «un’operazione coordinata da Frontex e dalla gendarmeria serba ha smantellato gli accampamenti in pochi giorni. Abbiamo perso le tracce dei protagonisti, e questo ci ha costretto a lavorare su ciò che avevamo raccolto, traducendo il materiale per capire cosa raccontare». Dopo un anno di montaggio, il film si è concluso, chissà le vite di queste persone e delle anime che hanno trasportato, come fossero Caronte, nel buio dell’inferno della vita e dell’ingiustizia.