What Does That Nature Say to You: un'ode alla natura tra poesia e lotta generazionale

Diletta Coluccia

3/4/20255 min read

Il film segna il 33° lavoro del prolifico regista sudcoreano e segue una sequenza impressionante di sei anni consecutivi alla Berlinale. Come al solito, Hong Sang-soo è la sua stessa troupe, accreditato come direttore della fotografia, compositore, montatore e sound designer, oltre che scrittore, produttore e regista. Un’economia di mezzi senza precedenti. Ma in questa 75° edizione della Berlinale non porta le abituali narrazioni ellittiche e inaffidabili — fatte di salti e scarti imprevedibili da gestire — ma tre luoghi di ripresa e una narrazione lineare che lascia spazio a numerose pause narrative con soggettive e inquadrature fuori fuoco che hanno subito portato numerosi giornalisti in conferenza stampa a proporre dietrologie e simbolismi a più livelli; Hong Sang-soo è il primo a essere estraneo a queste interpretazioni in fase di produzione:

"Come posso dire, è una sorta di abbellimento facile, o glorificazione dell'ovvio, ciò che è già molto conosciuto. Quindi vogliono renderlo fresco facendo questo... alcuni processi come concentrarsi o fare angoli più definiti di ogni tipo di cosa per farla diventare un simbolo. Ma l'essenza del simbolo è che è una cosa già molto conosciuta. L'idea ben nota, e se sei d'accordo con me, io no, non credo nei simboli, uso stereotipi e a volte indugio su certe cose, piuttosto a lungo, così che le persone siano portate a giocare con l'idea che forse ciò significhi qualcosa, ma non significa nulla. In quella alienazione delle delusioni, le persone hanno — spero che le persone abbiano delle aperture improvvise, così si trovano a fare i conti con cose molto concrete e quotidiane che pensano di conoscere molto bene e poi hanno questa certa rottura, questa apertura, quindi è questo tipo di... sai cosa intendo, non è un simbolo."


D’altronde, in una sala completamente buia, davanti all’inquadratura fissa e distaccata di un albero che dura numerosi secondi, in formato 16:9 e ad alta risoluzione, non hai potere decisionale sul tuo flusso di coscienza. Stimolato all'improvviso da una speculazione, attribuisci questo o quel pensiero a qualsiasi cosa si trovi di fronte. Tenuto conto che le stesse inquadrature sono predominanti e accompagnate da occasionali panoramiche e zoom per direzionare la nostra attenzione: è impossibile non innescare una percezione tutta personale per ogni scena e una pluralità di narrazioni. Quindi, siamo sicuri che Hong Sang-soo - non conosciuto di certo per la meticolosità nel seguire le sue sceneggiature- sia la persona più adatta a decretare questa o quella interpretazione come più accreditata? Essendo la conferenza subito dopo il film, la negoziazione tra quanta vita quotidiana o quanto simbolismo ci fosse in ogni sequenza è stata rapida e particolarmente comica: i giornalisti si scontravano nell’una o l’altra interpretazione con l'approccio estremamente minimalista del regista.


Dunque, sarebbe meglio arrivare preparati. E dopo quest’esperienza alla Berlinale, si potrebbe dire che l’ideale è considerare ogni sceneggiato di Sang-soo come un invito, che si estende tra i 90 e i 120 minuti, a fruire della "bellezza delle cose" per ciò che sono, capaci di suscitare riflessioni semplicemente perché esistono o possono esistere (Hong Sang-soo è un grande maestro dell’Alternativa). È proprio in questa osservazione attenta che i suoi fan trovano un porto sicuro da sei anni a questa parte. E se quest’anno siamo stati un po’ tutti colpevoli di reificazione guardando il suo ultimo lungometraggio, presentato in competizione, un’altra grande trappola in cui gli overthinkers incappano spesso è quella di psicanalizzare i personaggi, che non sono artefici mai delle proprie scelte ma vittime del caso (un po' come per l’hazard di Rohmer di cui ho già parlato qui). E i risvolti che ne derivano, e imbastiscono la narrazione, non sono che la bellezza delle possibilità.

Gli scherzi del destino, che rappresentano uno dei leitmotiv delle trame dei suoi film, influenzano allo stesso modo il processo creativo in sede di riprese e di post-produzione. What Does That Nature Say to You (Geu jayeoni nege mworago hani) che sembra nascere per uno scherzo del destino (una settimana trascorsa a casa dei genitori di Kang So-yi attrice nel film), si apre con un altro scherzo del destino: l’incontro imprevisto di un giovane poeta con la famiglia della sua fidanzata, che da tre anni non le aveva mai parlato di lui. Forse proprio perché ne prevedeva l’esito. La tensione tra Donghwa (Ha Seongguk) e Junhee (Kang Soyi) è subito palpabile, suggerendo il timore di Junhee nel presentarlo alla sua famiglia e l’imbarazzo di Donghwa nell’essere presentato. Il padre, Oryeong (Kwon Haehyo), prende subito in simpatia il giovane: è affascinato dalla sua carriera di poeta, apprezza la sua macchina e, considerato che Donghwa è figlio di un avvocato importante, trova giusto invitarlo a restare per cena. Hong Sang-soo flirterà per tutto il film con la commedia dell’imbarazzante. Ci mostra la riluttanza dei genitori a passare da un comportamento formale a uno più familiare, il sermone di Donghwa sull’autosufficienza e il suo entusiasmo per una risposta emotiva pronta e degna dell’antico albero di ginkgo dedicato alla madre defunta di Oryeong. Ma dopo un bicchiere di troppo a cena, le sue aspirazioni poetiche sembrano vacillare e la consapevolezza che la posta in gioco, con lui, sarà sempre alta prende il sopravvento. Quando Neunghee, la sorella di Junhee, insiste troppo sul denaro che suo padre potrebbe mettergli a disposizione, non si trattiene; si lascia andare ad uno sproloquio sconclusionato sull’insularità della ricchezza e della classe, esprimendo con la naturalezza dell’ebbrezza il suo disprezzo per il privilegio, tutto davanti ai suoi futuri suoceri. Donghwa è estremamente mortificato.


In uno degli ultimi segmenti, i genitori, anche loro finalmente ubriachi, si esprimono sul giovane confessando a gran voce tutto quello che non avevano il coraggio di dire altrimenti. La confusione che ne deriva è l’artificio narrativo (ricorsivo) perfetto per snodare intere matasse sentimentali. E se in queste ultime scene è facile scivolare nel grottesco, Hong Sang-soo non si sbilancia mai, mantenendo uno sguardo amorale e cinico. La sua intenzione è farci apprezzare l'ironia che si cela nei momenti quotidiani, quando ci si incontra o scontra improvvisamente con gli altri, colti alla sprovvista. E se dovessimo partecipare all’apologia per la poetica del quotidiano, iniziata in conferenza stampa, diremmo che la nostra incertezza e codardia ne costituiscono una parte essenziale, e forse c’è un significato che si cela dietro scambi apparentemente innocui tra i personaggi che vale la pena raccontare, un dato storico reso perfettamente da quella patina aneddotica che solo una camera degli anni '80, quella con cui è stato girato il film, può restituire.

Ma torniamo a noi Il legame tra Hong Sang-soo e la Berlinale è uno dei più longevi, radicato fin dai suoi primi anni di carriera; tuttavia, non nascondo tuttora il mio stupore dietro la sua partecipazione alla competizione principale di quest’anno. Le sue indagini sulle relazioni moderne e sulla libertà personale, tanto rivendicate, sembrano ormai fissate in un approccio che risulta specifico e referenziale, nelle tecniche narrative e nelle realtà in cui si radicano. Sebbene continui a raccontare la vita degli artisti, gli incontri casuali, i pasti tranquilli, le pause per fumare e le umiliazioni da ubriachi, questi temi, pur sempre attuali, sembrano privi di quella spinta originale che li renderebbe ancora sorprendenti. L’innovazione artistica in termini di forma, narrazione, contenuto e approccio visivo è una questione cruciale per i film in concorso a festival come la Berlinale. La vera domanda è: fino a che punto la poetica di Hong Sang-soo, pur essendo raffinata, può evolversi e rimanere rilevante?